Riassunti biomateriali innovativi

Riassunti biomateriali innovativi

Riassunti biomateriali innovativi

Indice

Biomateriale 1

Proprietà dei materiali 2

Prove meccaniche sui materiali 7

Materiali ceramici 10

Vetri 13

Materiali bioceramici 15

Polimeri 37

Isomorfismo e allotropia 49

Biomateriali metallici 49

Polimeri naturali 99

Materiali compositi 122

Biocompatibilità 133

 

Biomateriale

Un biomateriale:

  • è un materiale utilizzato in un dispositivo biomedicale, destinato a interagire con i sistemi biologici

  • viene utilizzato per realizzare dispositivi per sostituire o implementare una funzione del corpo in modo sicuro, affidabile, economico e fisiologicamente accettabile

  • è qualsiasi sostanza (che non sia un farmaco), naturale o sintetica, che tratta, integra o sostituisce una qualsiasi funzione di un tessuto, di un organo o del corpo.

Caratteristiche principali

  • Biocompatibilità: capacità del biomateriale di provocare una risposta biologica appropriata senza causare effetti tossici, infiammatori o di rigetto nell'organismo.

  • Biofunzionalità: capacità di svolgere una funzione specifica dal punto di vista fisico e meccanico, mantenendola nel tempo.

  • L'ambiente operativo è fisiologico, con condizioni chimiche e meccaniche costanti, in cui il biomateriale è a contatto diretto con fluidi biologici contenenti enzimi, proteine e cellule.

Generazioni di biomateriali

I biomateriali si sono evoluti in tre generazioni principali:

  1. Prima generazione: materiali bioinerti, cioè biocompatibili ma che non interagiscono attivamente con i tessuti, con l’obiettivo di minimizzare la tossicità e imitare le proprietà fisiche del tessuto sostituito.

  2. Seconda generazione: materiali bioattivi o riassorbibili, che possono provocare reazioni controllate nell'ambiente fisiologico o degradarsi per essere sostituiti dal tessuto naturale.

  3. Terza generazione: materiali sia bioattivi che bioinduttivi, progettati per stimolare risposte cellulari specifiche e favorire la rigenerazione tissutale.

Proprietà dei materiali

Tenacità 

La tenacità meccanica è una proprietà dei materiali che indica la capacità di un materiale di assorbire energia prima di rompersi, combinando quindi resistenza e duttilità. In pratica, rappresenta l'energia per unità di volume che un materiale può assorbire fino alla rottura, includendo sia la deformazione elastica sia quella plastica.

Definizione e significato

  • La tenacità corrisponde all'area sottostante la curva tensione-deformazione di un materiale durante una prova meccanica, quindi è una misura della densità energetica immagazzinata nel materiale fino al punto di rottura.

  • È diversa dalla resilienza, che si riferisce solo all'energia assorbita nella fase elastica (prima dello snervamento), mentre la tenacità considera l'intera deformazione fino alla rottura.

  • Un materiale con alta tenacità è in grado di deformarsi plasticamente in modo significativo prima di rompersi, risultando resistente a urti e carichi dinamici.

Misurazione

  • La tenacità si misura spesso tramite prove d'urto, come la prova di Charpy o di Izod, in cui un pendolo colpisce un provino intagliato e si misura l'energia assorbita per causare la frattura.

  • L'energia assorbita dall'urto è direttamente proporzionale alla tenacità all'intaglio del materiale.

Fattori che influenzano la tenacità

  • Composizione chimica: elementi come carbonio, nichel, cromo influenzano la tenacità.

  • Microstruttura: grani più fini migliorano la resistenza alla propagazione delle fratture.

  • Temperatura: a basse temperature molti materiali diventano più fragili, riducendo la tenacità.

Importanza

La tenacità è fondamentale in applicazioni dove i materiali devono resistere a urti, carichi dinamici o condizioni estreme, evitando rotture fragili che possono causare guasti improvvisi.

Resilienza

La resilienza è una proprietà meccanica che indica la capacità di un materiale di assorbire energia durante una deformazione elastica e di restituirla tornando alla forma originale senza rompersi. In pratica, misura quanta energia un materiale può accumulare elasticamente prima di arrivare alla rottura.

Caratteristiche principali della resilienza:

  • È l’energia assorbita per unità di volume durante la deformazione elastica.

  • Si misura con prove specifiche, come il test di Charpy, dove un pendolo rompe un provino e si valuta l’energia necessaria.

  • La resilienza è diversa dalla tenacità, che include anche l’energia assorbita durante la deformazione plastica fino alla rottura.

  • Un materiale con alta resilienza può resistere meglio a urti e sollecitazioni dinamiche.

Aspetti importanti:

  • La resilienza dipende da proprietà come il modulo di Young e il limite di snervamento: materiali con alto limite di snervamento e basso modulo di Young sono più resilienti.

  • La resilienza diminuisce con la temperatura e può crollare bruscamente sotto una certa temperatura di transizione.

  • Materiali come gli acciai con aggiunta di nichel mostrano maggiore resilienza, mentre materiali fragili come le ghise hanno bassa resilienza.

  • La resilienza è fondamentale per prevenire la propagazione di cricche e rotture improvvise in condizioni di urto.

Duttilità

La duttilità è la capacità di un materiale di subire deformazioni plastiche significative sotto carico di trazione prima di rompersi. In altre parole, un materiale duttile può essere allungato o piegato senza rompersi, permettendo grandi deformazioni irreversibili senza cedimenti immediati.

Caratteristiche principali della duttilità

  • Misura la deformazione plastica prima della rottura, spesso espressa come percentuale di allungamento o riduzione dell’area in una prova di trazione.

  • È diversa dalla malleabilità, che indica la capacità di deformarsi plasticamente sotto compressione (es. laminazione o martellatura).

  • Materiali molto duttili possono essere ridotti in fili sottili (es. oro, rame, alluminio), mentre la malleabilità si riferisce alla formazione di lamine sottili.

  • La duttilità dipende da fattori come temperatura, presenza di impurità, lavorazioni e trattamenti termici.

Importanza della duttilità

  • Materiali duttili assorbono energia e resistono meglio a deformazioni impreviste, evitando rotture fragili e catastrofiche.

Cricca e dislocazione

Ecco un confronto sintetico e completo tra cricca e dislocazione, basato sui contenuti dei risultati di ricerca e conoscenze tecniche:

Definizione e natura del difetto

  • Cricca: è una fessura o crepa macroscopica o microscopica in un materiale, rappresenta un difetto esteso che può portare alla frattura del componente. È un difetto di tipo fratturativo che si propaga sotto carico meccanico, specialmente in presenza di sollecitazioni cicliche o di fatica.

  • Dislocazione: è un difetto lineare microscopico nella struttura cristallina, un’irregolarità nell’ordinamento atomico che permette lo scorrimento plastico del materiale a basse sollecitazioni.

Ruolo meccanico e comportamento

  • Cricca: agisce come concentratore di stress, aumentando localmente la tensione e facilitando la propagazione della frattura. Nei materiali fragili la cricca si propaga rapidamente senza deformazione plastica, causando rotture improvvise e catastrofiche; nei materiali duttili la propagazione è più lenta e accompagnata da deformazione plastica.

  • Dislocazione: facilita la deformazione plastica nei materiali cristallini, permettendo lo scorrimento dei piani atomici e la deformazione permanente senza rottura immediata. La presenza e il movimento delle dislocazioni determinano la duttilità e la resistenza meccanica del materiale.

Scala e impatto sul materiale

  • Cricca: difetto macroscopico o microscopico che può portare a guasto strutturale; la sua crescita è il meccanismo principale della frattura e della fatica.

  • Dislocazione: difetto microscopico che non causa rottura diretta ma permette la deformazione plastica; la loro interazione e densità influenzano le proprietà meccaniche e la resistenza alla frattura.

Sintesi

Aspetto

Cricca

Dislocazione

Tipo di difetto

Fessura o crepa macroscopica/microscopica

Difetto lineare microscopico nella struttura cristallina

Scala

Macroscopica/microscopica

Microscopica

Ruolo

Concentrazione di stress, innesco e propagazione della frattura

Facilitazione della deformazione plastica

Effetto sul materiale

Rottura, guasto improvviso o fatica

Deformazione plastica, duttilità

Propagazione

Rapida nei materiali fragili, più lenta nei duttili

Movimento di dislocazioni sotto carico

Interazione

Può essere influenzata dal movimento delle dislocazioni

Interagiscono tra loro e con cricche

Frattura

La frattura meccanica è il fenomeno di rottura di un materiale dovuto a sollecitazioni esterne che causano la disgregazione del materiale in frammenti più piccoli, tramite la rottura dei legami chimici tra atomi. Questo processo può avvenire in modi diversi a seconda del materiale e delle condizioni di carico:

  • Frattura duttile: il materiale si deforma plasticamente in modo significativo prima della rottura, assorbendo energia.

  • Frattura fragile: la rottura avviene senza deformazione plastica macroscopica, in campo elastico, con una superficie di frattura liscia e piana; tipica di materiali come ceramiche, vetro o leghe metalliche a basse temperature.

La frattura può propagarsi in modo transgranulare (attraverso i grani del materiale) o intergranulare (lungo i bordi di grano).

Il criterio di frattura si basa sul raggiungimento di un valore critico del fattore di intensificazione degli sforzi , chiamato tenacità alla frattura, che dipende dal materiale, dalla temperatura e dalla microstruttura.

Teoria di Griffith e frattura fragile

Le ipotesi di Griffith presero spunto dal fatto che, teoricamente, un materiale dovrebbe avere una resistenza a rottura due ordini di grandezza maggiore di quella che si riscontra. Griffith assunse che:

  • la sollecitazione di rottura fosse correlata alla presenza di difetti nella microstruttura del materiale

  • la dimensione dei difetti fosse il fattore critico che determinava la resistenza a rottura del materiale

Modi di frattura

I modi di frattura meccanica si distinguono principalmente in base al tipo di sollecitazione e al modo in cui la cricca si propaga nel materiale. In particolare, si riconoscono tre modalità fondamentali:

  • Modo I (apertura o trazione): la cricca si apre perpendicolarmente al piano di frattura a causa di uno sforzo di trazione normale al piano stesso. Questo è il modo più comune e riguarda la frattura per apertura in trazione, dove il carico tende ad allargare la cricca.

  • Modo II (scorrimento o taglio nel piano): la cricca si propaga per scorrimento tangenziale lungo il piano di frattura, cioè il carico induce uno spostamento di taglio nel piano della cricca senza aprirla. Questo modo è associato a sollecitazioni di taglio nel piano della frattura.

  • Modo III (lacerazione o scorrimento fuori piano): la cricca si propaga per scorrimento tangenziale fuori dal piano di frattura, cioè il carico provoca uno spostamento di taglio fuori dal piano della cricca, generando una lacerazione o torsione del materiale.

Questi modi descrivono i diversi meccanismi con cui una cricca può avanzare nel materiale sotto diverse condizioni di carico.

Prove meccaniche sui materiali

Le prove meccaniche sui materiali sono test che valutano il comportamento dei materiali sotto l’azione di forze esterne, fornendo dati fondamentali per determinarne le proprietà meccaniche e la qualità. Queste prove possono essere distruttive o non distruttive e sono eseguite in condizioni controllate per simulare l’uso reale dei materiali.

Tipologie principali di prove meccaniche

1. Prove statiche

  • Applicazione di carichi graduali e mantenuti nel tempo.

  • Esempi:

  • Prova di trazione: misura resistenza, duttilità, modulo di Young.

  • Prova di compressione: valuta il comportamento sotto carichi compressivi.

  • Prova di durezza: determina la resistenza alla deformazione permanente (Brinell, Rockwell, Vickers).

2. Prove dinamiche

  • Carichi applicati in tempi molto brevi o urti improvvisi.

  • Esempi:

  • Prova di resilienza (Charpy, Izod): misura l’energia assorbita da un materiale durante un impatto.

  • Prove d’urto: valutano la resistenza a rottura sotto carichi dinamici.

3. Prove a carico oscillante o ciclico

  • Simulano carichi ripetuti o variabili nel tempo.

  • Esempi:

  • Prove di fatica: determinano la durata del materiale sotto carichi ciclici, fondamentali per componenti soggetti a sollecitazioni ripetute.

4. Prove di attrito

  • Valutano la resistenza all’usura e all’attrito tra superfici in contatto.

Scopi delle prove meccaniche

  • Determinare proprietà come resistenza, duttilità, durezza, tenacità, resilienza e resistenza alla fatica.

  • Classificare e confrontare materiali diversi.

  • Verificare la conformità a normative e specifiche tecniche (ISO, ASTM, UNI).

  • Supportare lo sviluppo di nuovi materiali e il controllo qualità in produzione.

  • Simulare condizioni di utilizzo reali per prevedere il comportamento e la durata dei componenti.

Prova di resilienza

La prova di resilienza è un test d’urto che misura la capacità di un materiale di assorbire energia durante una frattura causata da un impatto improvviso. I due metodi più comuni sono la prova Charpy e la prova Izod, che differiscono principalmente per il montaggio del campione e la direzione dell’impatto.

Differenze principali tra prova Charpy e Izod

Caratteristica

Prova Charpy

Prova Izod

Posizione del campione

Orizzontale, ammorsato su due estremità

Verticale, ammorsato a un’estremità

Orientamento della tacca

Sul lato opposto al punto di impatto

Rivolta verso il punto di impatto

Punto di impatto

Al centro del provino

Vicino all’ammorsaggio superiore

Tipo di flessione

Flessione a tre punti

Flessione a sbalzo

Materiali tipici testati

Metalli, materiali strutturali

Plastica, polimeri, materiali fragili

Energia assorbita

Misurata dalla perdita di moto del pendolo

Misurata dall’altezza finale del martello

Principi della prova

  • Un pendolo viene lasciato cadere da un’altezza prefissata per colpire il provino.

  • L’energia assorbita durante la rottura è data dalla differenza tra l’energia potenziale iniziale e quella residua del pendolo dopo l’impatto.

  • La prova simula carichi dinamici ad alta velocità, importanti per valutare la tenacità e la resilienza dei materiali, soprattutto in condizioni di urto improvviso.

  • La temperatura e la preparazione del campione (intaglio e finitura) influenzano significativamente i risultati.

Applicazioni

  • La prova Charpy è più comune per metalli e materiali duttili, utile per valutare la resistenza a fratture fragili.

  • La prova Izod è spesso usata per materiali fragili come plastiche e polimeri, dove la posizione del campione e il tipo di impatto sono più rappresentativi delle condizioni operative.

Prove di fatica

Le prove di fatica sono test meccanici distruttivi che valutano la capacità di un materiale di resistere a sollecitazioni cicliche o variabili nel tempo, tipicamente inferiori al limite di snervamento o rottura statica, simulando condizioni operative reali.

Caratteristiche principali delle prove di fatica

  • Obiettivo: determinare la durata (numero di cicli) che un materiale può sopportare sotto carichi ciclici prima della rottura.

  • Carico ciclico: il materiale è sottoposto a carichi oscillanti tra un valore massimo e uno minimo, che possono essere di trazione, compressione, flessione o torsione.

  • Tipologie di prova:

  • Fatica ad alto ciclo (HCF): elevato numero di cicli, bassi livelli di stress.

  • Fatica a basso ciclo (LCF): basso numero di cicli, alti livelli di stress.

  • Prova di flessione rotante: campione sottoposto a flessione ciclica.

  • Prova di fatica assiale: applicazione di stress assiale pulsante.

  • Parametri di prova: ampiezza dello sforzo, sforzo medio, frequenza, numero di cicli.

Importanza e applicazioni

  • Fondamentali per progettare componenti soggetti a carichi dinamici ripetuti.

  • Consentono di prevedere la vita utile e prevenire guasti improvvisi dovuti a fatica.

  • Le prove possono essere condotte a temperatura ambiente, a caldo o a freddo per simulare condizioni di esercizio realistiche.

Procedura tipica

  • Preparazione di provini standardizzati con geometria e finitura superficiale definite.

  • Applicazione di carico ciclico controllato in macchine di prova dedicate.

  • Monitoraggio del numero di cicli fino alla rottura o fino a un numero prefissato (runout).

  • Analisi dei dati per costruire curve S-N e valutare la resistenza e la durata a fatica.

Materiali ceramici

Un materiale ceramico è un solido inorganico, non metallico, caratterizzato da elevata durezza, resistenza all’usura, elevata resistenza alla compressione e buona stabilità chimica e termica. I materiali ceramici avanzati (allumina, zirconia), sono progettati per applicazioni high-tech grazie alle loro eccellenti proprietà meccaniche, termiche ed elettriche.

Proprietà principali

  • Durezza elevata: i ceramici sono molto duri, resistendo bene a graffi e abrasioni.

  • Tenacità alla frattura bassa ma migliorabile: sono fragili, tendono a rompersi senza deformazione plastica significativa, ma ceramiche avanzate come la zirconia stabilizzata parzialmente mostrano una tenacità alla frattura superiore rispetto ai ceramici tradizionali.

  • Resistenza alla compressione alta: sopportano carichi compressivi elevati.

  • Sensibilità ai difetti: la presenza di cricche, porosità e inclusioni riduce drasticamente la resistenza meccanica, poiché queste fungono da punti di concentrazione degli sforzi che innescano la frattura.

  • Bassa duttilità: la mancanza di dislocazioni mobili nella struttura cristallina impedisce la deformazione plastica, rendendo la frattura improvvisa e fragile.

Produzione

I materiali ceramici si ottengono per sinterizzazione partendo da polveri di composti puri (naturali o sintetici), che vengono compattate e sinterizzate per ottenere la forma desiderata, spesso con l’uso di leganti polimerici.

Sinterizzazione

La sinterizzazione è un processo termico utilizzato per trasformare polveri di materiali ceramici o metallici in un solido compatto e coeso, senza fondere il materiale di partenza. Durante la sinterizzazione, il materiale viene riscaldato a temperature elevate, ma inferiori al punto di fusione, favorendo la diffusione atomica e la formazione di legami tra le particelle.

Obiettivi principali

  • Ridurre la porosità del materiale.

  • Aumentare la densità.

  • Migliorare la resistenza meccanica e la stabilità termica del prodotto finale.

Fasi del processo

  1. Preparazione della polvere: macinazione e miscelazione con eventuali leganti o additivi per facilitare la formatura.

  2. Formatura (corpo verde): compattazione della polvere nella forma desiderata tramite pressatura o stampaggio.

  3. Rimozione dei leganti: riscaldamento a bassa temperatura per eliminare leganti e componenti volatili, lasciando una struttura porosa.

  4. Sinterizzazione ad alta temperatura: riscaldamento a temperatura elevata (ma sotto il punto di fusione) in forno con atmosfera controllata, che permette la diffusione e la coalescenza delle particelle, riducendo la porosità e aumentando la densità.

  5. Raffreddamento controllato: per evitare fessurazioni o deformazioni.

Meccanismo microscopico

  • Le particelle iniziano a legarsi formando ponti di materiale.

  • Il volume del compatto si riduce e la resistenza meccanica aumenta.

  • I pori si chiudono o si riducono, migliorando la compattezza.

Tipologie di sinterizzazione

Sinterizzazione allo stato solido

  • La sinterizzazione è un processo di diffusione che combina grani in polvere distinti al di sotto del punto di fusione in un unico materiale coesivo

  • Le particelle di polvere vengono pressate insieme formando una massa compatta di particelle di polvere

  • Le polveri vengono macinate per produrre una polvere fine

  • Granulometria più piccola = maggiore resistenza

  • La polvere compatta viene quindi riscaldata per consentire la diffusione e le particelle di polvere separate si fondono insieme di solito T > 1/2 Tm in kelvin

  • Temperatura più alta = dimensione dei pori più piccola

  • Il prodotto finale è costituito da grani con bordi contenenti una miscela di atomi da due particelle separate

  • Anche il materiale diventa più denso man mano che viene sinterizzato

Minimizzazione dell’energia

  • La sinterizzazione è guidata da una riduzione dell'energia superficiale

  • Due superfici sono sostituite da un unico bordo di grano

  • Gli atomi si diffondono dal bordo del grano alla superficie vuota

  • La diffusione più rapida si verifica al bordo del grano

  • I vuoti vengono riempiti e il pezzo è più denso con meno energia superficiale

Sinterizzazione in fase liquida

  • Si riscalda la polvere compattata appena sopra il punto di fusione eutettico

  • Il punto di fusione eutettico è il punto di fusione minimo di una combinazione di due o più materiali

  • Riscaldando, una piccola parte del materiale ceramico si scioglie formando un liquido altamente viscoso

  • Si verifica alla periferia delle particelle

  • Il liquido attrae le particelle di ceramica

  • Raffreddandosi, la fase viscosa si trasforma in:

  • vetro (scarse proprietà ad alta temperatura)

  • oppure in materiale cristallino (migliori proprietà alle alte temperature)

Tenacizzazione nei materiali ceramici

La tenacizzazione dei materiali ceramici è un insieme di tecniche progettate per migliorare la resistenza alla frattura dei ceramici, che per loro natura sono fragili e privi di deformazione plastica.

Tenacizzazione

La tenacizzazione è il processo che aumenta la capacità di un materiale di assorbire energia prima di rompersi. Nei ceramici, ciò si ottiene principalmente attraverso meccanismi che ostacolano la propagazione delle cricche.

Metodi di tenacizzazione per un materiale ceramico

Eliminazione dei "difetti di Griffith"

  • Microfessure nei materiali fragili che possono portare a fratture

  • Mordenzatura chimica

  • Arrotondamento delle crack tip per ridurre la concentrazione delle sollecitazioni

  • Lucidatura a fuoco

  • Rimozione dei difetti superficiali riscaldando il materiale a una temperatura tale che il materiale fluisca e chiuda le fessure o smorzi gli apici delle cricche

Compressione superficiale

  • Lavorazione del materiale in modo che la superficie sia in compressione rispetto al resto del materiale

  • Le forze di compressione devono essere superate prima di mettere in tensione l'intera struttura

  • Tipicamente fatto con mezzi chimici, ma può anche essere ottenuto attraverso la tempra che fa sì che la parte interna del materiale cerchi di restringersi mentre è vincolata dalla superficie esterna rigida

Vetri

I vetri sono materiali a matrice vetrosa caratterizzati da una struttura amorfa e fragile, con un modulo elastico moderato (tra 60 e 90 GPa). Per migliorarne la tenacità e la resistenza meccanica, spesso si realizzano compositi a matrice vetrosa rinforzati con fibre o particelle, che favoriscono meccanismi di tenacizzazione.

Struttura e comportamento termico

  • I vetri sono solidi amorfi senza ordine atomico a lungo raggio, con struttura isotropa e proprietà uniformi in tutte le direzioni.

  • Si comportano come liquidi sottoraffreddati che a temperatura ambiente sono solidi senza flusso viscoso.

  • Presentano una transizione vetrosa reversibile, ossia passano da uno stato rigido e fragile a uno gommoso o viscoso con l’aumento della temperatura (temperatura di transizione vetrosa, Tg).

  • I ceramici cristallini, al contrario, hanno un punto di fusione netto e non mostrano questa transizione.

Proprietà meccaniche e fisiche

  • I vetri sono generalmente più fragili dei ceramici cristallini, poiché mancano di piani atomici per la deformazione plastica.

  • Sono ottimi isolanti elettrici e termici grazie alla struttura amorfa.

  • Sono trasparenti, mentre i ceramici cristallini sono opachi a causa della diffrazione della luce sui grani.

Produzione e composizione

  • I vetri si ottengono tramite:

  • Fusione completa degli ingredienti (principalmente ossidi come SiO₂, Na₂O, CaO).

  • Raffreddamento rapido per evitare la cristallizzazione e mantenere la struttura amorfa.

  • La composizione comprende:

  • Ossidi formatori: costituiscono la rete principale (es. SiO₂).

  • Ossidi modificatori: aggiungono ioni positivi che “rompono” la rete, modificando proprietà come il punto di ammorbidimento.

  • Tipologie comuni di vetro:

  • Vetro silicato (SiO₂ puro o quasi).

  • Vetro soda-lime (con Na₂O e CaO).

  • Vetro borosilicato (con B₂O₃, che migliora resistenza termica e chimica).

Vetrocermiche

  • Materiali ibridi ottenuti dalla cristallizzazione controllata di un vetro (devetrificazione).

  • Presentano una matrice vetrosa con cristalli incorporati.

  • Combinano:

  • Trasparenza e proprietà isolanti dei vetri.

  • Resistenza meccanica e stabilità dei ceramici cristallini.

  • Offrono un compromesso ideale per molte applicazioni tecnologiche e biomedicali.

Resistenza alla frattura dei vetri e materiali fragili

  • Fragilità del vetro: Il vetro è un materiale fragile, cioè si rompe senza deformazione plastica apprezzabile quando sottoposto a stress termici o meccanici. Tuttavia, le fibre di vetro possono essere talvolta più resistenti dell’acciaio (resistenza misurata in MPa).

  • Differenza con i metalli: Nei metalli, la deformazione duttile è possibile grazie al movimento delle dislocazioni nella struttura cristallina, che permette una deformazione plastica prima della rottura. Nei vetri, privi di dislocazioni, la deformazione plastica è quasi inesistente.

  • Effetto delle cricche: La presenza di cricche nei materiali fragili amplifica gli stress locali, causando la rottura a sollecitazioni molto inferiori rispetto ai valori teorici. Nei vetri, la propagazione delle cricche crea nuove superfici di frattura, portando a rotture improvvise.

  • Resistenza teorica di un solido fragile perfetto: Determinata dalla forza dei legami atomici e dall’energia necessaria per creare nuove superfici di frattura, espressa dalla formula:

dove è la distanza interatomica, l’energia superficiale ed E il modulo di Young.

  • Fatica del vetro: La frattura può crescere lentamente (propagazione subcritica) sotto stress, portando a rotture ritardate. La fatica è favorita da umidità e temperature elevate, e si manifesta sia sotto carico costante (fatica statica) sia sotto carico variabile (fatica dinamica).

  • Frattografia: L’analisi delle superfici di frattura del vetro (mirror, mist, hackle) permette di ricostruire le cause e il meccanismo della rottura. Le linee di Wallner indicano l’interazione del fronte di frattura con i campi di sforzo.

  • Durezza del vetro: La capacità del vetro di resistere a carichi concentrati (urti) si chiama durezza, che può essere misurata con prove di scalfittura, penetrazione o abrasione.

Materiali bioceramici

I materiali bioceramici sono ceramiche progettate per l'uso in ambito medico e odontoiatrico, grazie alla loro biocompatibilità e capacità di interagire con i tessuti biologici.

Classificazione dei materiali bioceramici in base al loro comportamento nel corpo umano

  1. Ceramiche bioinerte: questi materiali non interagiscono chimicamente con i tessuti biologici, riducendo il rischio di reazioni avverse. Sono scelti per la loro stabilità e resistenza all'usura e alla degradazione all'interno del corpo, mantenendo la loro struttura e funzionalità nel tempo. Esempi includono:

  • Allumina (Al₂O₃): Utilizzata in protesi d'anca e ginocchio per la sua elevata resistenza meccanica e bassa usura.

  • Zirconia (ZrO₂): Impiegata in impianti dentali e protesi articolari, offre buona resistenza alla frattura e proprietà estetiche simili ai denti naturali.

  1. Ceramiche bioattive: questi materiali possono legarsi chimicamente ai tessuti ossei, stimolando la crescita cellulare e la rigenerazione tissutale. Sono utilizzati per favorire l'integrazione con l'osso e la riparazione dei tessuti. Esempi includono:

  • Idrossiapatite (HA): Componente principale dell'osso umano, utilizzata in innesti ossei e rivestimenti per impianti metallici.

  • Biovetro (BioGlass): Materiale che forma un legame chimico con l'osso, utilizzato in innesti ossei e come rivestimento per impianti.

  1. Ceramiche bioassorbibili: questi materiali si degradano nel corpo, permettendo la sostituzione graduale con tessuti naturali. Sono utilizzati in applicazioni temporanee, come innesti ossei che favoriscono la guarigione. Esempi includono:

  • Fosfati di calcio (ad esempio, tricalcio fosfato): Utilizzati in innesti ossei e come rivestimenti per impianti, si degradano nel tempo e sono sostituiti da nuovo tessuto osseo.

Applicazioni cliniche

  • Odontoiatria: I materiali bioceramici sono utilizzati in otturazioni canalari.

  • Chirurgia ortopedica: Materiali come l'allumina e la zirconia sono impiegati in protesi d'anca e ginocchio, grazie alla loro resistenza all'usura e biocompatibilità.

  • Rigenerazione ossea: Ceramiche come l'idrossiapatite e il biovetro sono utilizzate in innesti ossei e come rivestimenti per impianti, favorendo l'integrazione con il tessuto osseo circostante.

Classificazione dei bioceramici in base alle tipologie di fissazione/legame

Quattro tipi di attacco ceramica-tessuto sono correlati alla risposta del tessuto a un materiale:

  • Fissazione morfologica: il ceramico denso, inerte e non poroso si attacca attraverso la crescita ossea (o tissutale) nelle irregolarità della superficie, cementando il dispositivo nei tessuti o inserendolo a pressione in un difetto

  • Fissazione biologica: il ceramico poroso e inerte si attacca attraverso la crescita ossea (nei pori) con conseguente adesione meccanica dell'osso al materiale

  • Fissazione bioattiva: il ceramico denso e non poroso reattivo sulla superficie si attacca direttamente mediante legame chimico con l'osso

  • Riassorbibile: la ceramica riassorbibile densa, porosa o non porosa viene lentamente sostituita dall'osso

Classificazione dei bioceramici in base alla porosità e al al loro comportamento nel corpo umano

1. Ceramici non porosi, quasi inerti

  • Allumina (Al2O3) e Zirconia (ZrO2)

  • I due bioceramici strutturali più comunemente utilizzati

  • Utilizzati principalmente come teste modulari su componenti dell'anca dello stelo femorale.

  • Si usurano meno dei componenti metallici e le particelle di usura sono generalmente meglio tollerate.

  • Carbonio pirolitico (Pyrolytic Carbon)

  • Rivestimenti per valvole cardiache, applicazioni a contatto con il sangue

2. Ceramici porosi

  • Rivestimenti per metallo o altri materiali

  • Ponte strutturale per la formazione dell'osso

  • L'aumento della porosità si traduce in:

  • Crescita ossea per fissare il componente al tessuto

  • Diminuzione delle proprietà meccaniche (no applicazioni strutturali)

  • Aumento della superficie (maggiori effetti ambientali)

La dimensione dei pori è fondamentale per la crescita dei tessuti e l'angiogenesi

L'idrossiapatite è la più comune tra i ceramici porosi

3. Ceramici bioattivi

È stato dimostrato che alcuni tipi di ceramici si legano all'osso:

  • Vetro bioattivo

  • Vetroceramica bioattiva

  • Esistono anche ceramici cristallini bioattivi e compositi bioattivi

Hanno temperature di fusione relativamente alte (1300 – 1450ºC)

Possono essere fusi in forme complesse (vetro)

Possono essere macinati in polvere, dimensionati e utilizzati come riempitivi

4. Ceramici bioriassorbibili

  • Si degradano dopo l'impianto nell'ospite

  • Il tasso di degradazione varia da materiale a materiale

  • La velocità di degradazione deve essere uguale alla velocità di generazione del tessuto nel sito specifico di applicazione

  • Quasi tutti i ceramici bioriassorbibili sono variazioni del fosfato di calcio

  • Usi della bioceramica biodegradabile:

  • Dispositivi per la somministrazione di farmaci

  • Materiale di riparazione per ossa danneggiate da traumi o malattie

  • Materiale di riempimento dello spazio per le aree di perdita ossea

  • Materiale per la riparazione e la fusione delle vertebre spinali e lombosacrali

  • Materiale di riparazione per ernia del disco

  • Materiale di riparazione per difetti maxillo-facciali e dentali

  • Impianti oculari

Ruolo della porosità

  • La porosità è fondamentale per la crescita e il rimodellamento dei tessuti, soprattutto ossei.

  • La porosità influisce sulla resistenza meccanica: maggiore porosità significa generalmente minore resistenza.

  • La dimensione, la forma e la distribuzione dei pori sono progettate per bilanciare le esigenze meccaniche con quelle biologiche.

  • Aumento della superficie permette maggiori effetti ambientali

Processing bioceramici

  1. Compounding: mescolare e omogeneizzare gli ingredienti in una sospensione a base acquosa = impasto liquido o, in un materiale plastico solido contenente acqua chiamato argilla

  2. Formatura: l'impasto liquido viene trasformato in parti mediante pressatura in stampo (sinterizzazione). Il particolato fine è spesso costituito da cristalli a grana fine.

  3. Essiccazione: l'oggetto formato viene essiccato, di solito a temperature ambiente fino al cosiddetto stato "verde"

  4. Cottura: riscaldamento nel forno per espellere l'acqua rimanente. In genere produce restringimento, quindi la produzione di parti che devono avere una stretta tolleranza meccanica richiede cura. Le parti porose si formano aggiungendo una seconda fase che si decompone ad alte temperature formando la struttura porosa.

Allumina

L’allumina (ossido di alluminio, Al₂O₃) è uno dei bioceramici più utilizzati come biomateriale grazie alle sue eccellenti proprietà meccaniche, chimiche e biologiche.

Proprietà principali

  • Granulometria e porosità: più sono piccole, maggiore è la resistenza meccanica e alla fatica.

  • Elevata durezza: conferisce ottima resistenza all’usura.

  • Basso coefficiente di attrito: con finiture superficiali inferiori a 0,02 μm.

  • Bassa usura: praticamente nessuna generazione di particelle di usura, garantendo un’elevata biocompatibilità.

  • Resistenza alla corrosione: stabile in ambienti biologici e chimici.

Fabbricazione

  • Forma monocristallina: sono stati ottenuti cristalli singoli fino a 10 cm di diametro.

  • Forma in polvere:

  • Pressatura e sinterizzazione di polveri fini a circa 1600 °C.

  • Aggiunta di MgO (<0,5%) per limitare la crescita dei grani.

  • Contenuto di SiO2 e ossidi alcalini mantenuto <0,1%.

  • CaO <0,1% perché ne riduce la resistenza alla fatica statica.

  • Granulometria molto fine (<7 μm), con allumina di grado medico intorno a 1,4 μm e distribuzione granulometrica stretta.

  • La granulometria fine aiuta a inibire la crescita di cricche da fatica.

Vantaggi e svantaggi

  • Vantaggio: ottima biocompatibilità, ideale per applicazioni biomedicali.

  • Svantaggio: la membrana fibrosa che si forma all’interfaccia osso-allumina non aderisce bene; l’osso cresce fino alla superficie dell’allumina ma non penetra all’interno, il che può causare fallimenti interfacciali e perdita dell’impianto.

Comportamento meccanico e usura

  • In ambienti fisiologici simulati, l’allumina mostra una probabilità di sopravvivenza del 99,9% a 50 anni sotto uno sforzo di 112 MPa.

  • Usura in applicazioni protesiche:

  • L’usura combinata allumina/UHMWPE (polietilene ad altissimo peso molecolare) è molto inferiore rispetto a quella metallo/UHMWPE.

  • L’usura tra superfici di allumina è praticamente nulla.

Zirconia

La zirconia (ossido di zirconio, ZrO₂) è un materiale ceramico polimorfo che si presenta in tre principali forme cristalline a seconda della temperatura:

  • Fase monoclina: stabile a temperatura ambiente fino a circa 1150 °C, è la forma più fragile e meno tenace.

  • Fase tetragonale: stabile tra circa 1150 °C e 2200 °C, metastabile a temperatura ambiente se stabilizzata con ossidi come ittrio (Y₂O₃), magnesio (MgO), calcio (CaO) o cerio (CeO₂).

  • Fase cubica: stabile sopra i 2200 °C, può essere stabilizzata a temperatura ambiente con additivi.

Stabilizzazione e meccanismo di tenacizzazione

La zirconia pura subisce trasformazioni di fase durante il raffreddamento che comportano variazioni volumetriche significative (circa +3-5% passando da tetragonale a monoclina), causando fragilità e rotture. Per ovviare a questo problema, si aggiungono stabilizzatori che mantengono la zirconia in una fase tetragonale metastabile a temperatura ambiente, nota come zirconia tetragonale policristallina stabilizzata con ittrio (Y-TZP) o altre varianti parzialmente stabilizzate.

Proprietà meccaniche

  • Buone proprietà meccaniche

  • Più forte dell'allumina (2-3 volte più forte)

  • Meno rigida dell'allumina

  • La superficie dell'ossido di zirconio può essere resa più liscia di quella di un'allumina

  • I tassi di usura della zirconia-PE sono 1/2 dei tassi di usura dell'allumimia-PE

  • Proprietà buone solo per i cristalli tetragonali

  • Rispetto all'allumina, zirconia parzialmente stabilizzata (PSZ)

  • maggiore resistenza alla flessione

  • Tenacità alla frattura

  • migliore affidabilità

  • modulo di Young inferiore

  • Possibilità di essere lucidata per una finitura superficiale superiore

  • durezza inferiore

Applicazioni

  • Ortopedia: testa del femore, ginocchio artificiale, viti e placche ossee, preferite rispetto all'UHMWPE per la superiore resistenza all'usura

  • Dentale: corone e ponti

Carbonio (elemental carbon)

  • Elementare, non metallico, molte forme possibili

  • Le proprietà dipendono dalla struttura atomica (Diamante, grafite, fullereni, ecc.)

  • Il carbonio ha generalmente una buona biocompatibilità

  • Forme utilizzate nelle bioapplicazioni

  • Grafite: proprietà lubrificanti

  • Carbonio simile al diamante: duro, resistente all'usura

  • Carbonio vetroso: resistente alle temperature e alle sostanze chimiche, bassa resistenza e scarsa resistenza all'usura

  • Carbonio pirolitico: resistente all'usura, abbastanza forte, fragile

Carbonio pirolitico (PyC)

Produzione

  • Ottenuto tramite pirolisi: decomposizione termica ad alta temperatura (1500-1800 °C) in atmosfera inerte (azoto o elio), che induce la polimerizzazione del carbonio invece della combustione.

  • Deposizione su substrati di grafite “galleggiante” per evitare difetti.

  • Può essere applicato come rivestimento sottile

Struttura e proprietà

  • Struttura simile alla grafite con legami misti sp² (grafite) e sp³ (diamante), con un elevato disordine reticolare.

  • Dimensioni dei cristalliti molto piccole, proprietà isotrope ma fortemente dipendenti dalla densità.

  • Modulo elastico: 17 - 28 GPa (simile a quello dell’osso).

  • Limite di fatica: vicino alla resistenza a trazione (molto superiore a quello della grafite).

  • Resistenza all’usura: circa 10 volte superiore a quella della grafite.

  • Possibilità di migliorare le proprietà meccaniche aggiungendo fino al 20% di silicio.

Applicazioni e vantaggi

  • Ottime proprietà di contatto con il sangue. Usato per rivestire:

  • Componenti delle valvole cardiache

  • Stent

  • Compatibilità non perfetta (Anticoagulanti necessari)

Fosfati di calcio

I fosfati di calcio sono sali di calcio dell’acido fosforico, con formula chimica generale Ca₃(PO₄)₂, noti anche come difosfato di tricalcio. Si presentano come solidi bianchi, poco solubili in acqua, e sono abbondanti in natura, soprattutto nei tessuti viventi come ossa, denti e smalto, dove costituiscono la principale fase minerale sotto forma di apatiti (es. idrossiapatite).

Caratteristiche principali

  • Il rapporto Ca:P è 10:6

  • Aspetto: solidi bianchi, cristallini o amorfi.

  • Presenza naturale: costituenti fondamentali di ossa, denti, gusci di conchiglie e cenere d’ossa.

  • Sintesi: ottenuti per reazione tra ossido di calcio e acido fosforico.

Tipi principali

  • Idrossiapatite (HA): Ca₁₀(PO₄)₆(OH)₂, la forma più stabile e biologicamente rilevante, con bassa solubilità e alta biocompatibilità.

  • Fosfato tricalcico (TCP): Ca₃(PO₄)₂, presente in forme α e β, con tassi di dissoluzione maggiori rispetto all’HA.

Idrossiapatite (HA)

  • Ca10(PO4)6(OH)2 con rapporto Ca:P ideale di 1,67.

  • L'HA è il componente strutturale primario dell'osso. È costituito da ioni Ca2+ circondati da ioni e .

  • L’HA sintetica è bioattiva, ossia capace di legarsi chimicamente all’osso.

  • L’organismo ospitante riconosce nella idrossiapatite sintetica il costituente delle ossa e avvia la sua sostituzione con il prodotto naturale con lo stesso sistema di riparazione delle fratture ossee.

  • Se il materiale sintetico è molto compatto, questo processo avviene solo per uno spessore modesto (lento e limitato riassorbimento); se invece ha una porosità il processo è veloce è il riassorbimento non è limitato.

Proprietà meccaniche

  • HA densa: proprietà simili allo smalto, più rigido e più forte dell'osso

  • HA porosa: non adatta per applicazioni strutturali

Applicazioni

  • Riparazione di difetti ossei, riparazione di difetti parodontali, mantenimento o aumento della cresta alveolare, impianto auricolare, impianto oculare, fusione della colonna vertebrale, adiuvante ad impianti non rivestiti.

  • Coatings bioceramici: i rivestimenti di idrossiapatite vengono spesso applicati agli impianti metallici (più comunemente leghe di titanio/titanio e acciai inossidabili) per alterare le proprietà della superficie. In questo modo il corpo vede materiale di tipo idrossiapatite che sembra più disposto ad accettare. Senza il rivestimento il corpo vedrebbe un corpo estraneo e lavorerebbe in modo tale da isolarlo dai tessuti circostanti.

  • Riempitivi ossei (bone fillers): l'idrossiapatite può essere impiegata in forme come polveri, blocchi porosi o granuli per riempire difetti ossei o vuoti. I difetti possono insorgere quando è stato necessario rimuovere ampie sezioni di osso (ad es. tumori ossei) o quando sono necessari aumenti ossei (ad es. ricostruzioni maxillo-facciali o applicazioni dentali). Il riempitivo osseo fornirà un'impalcatura e incoraggerà il rapido riempimento del vuoto formando naturalmente l'osso – fornisce un'alternativa agli innesti ossei. Inoltre entrerà a far parte della struttura ossea e ridurrà i tempi di guarigione

Fosfato tricalcico (TCP)

  • Formula: Ca₃(PO₄)₂ (whitlockite).

  • Due forme cristallografiche: α-TCP (monoclina) e β-TCP (romboedrica, più usata).

  • Tasso di dissoluzione: α-TCP > β-TCP > HA.

  • Molte ceramiche porose per sostituzione ossea sono a base di HA, TCP o loro combinazioni.

  • Rapporto Ca:P 1,5

Applicazioni fosfato tricalcico

  • somministrazione di farmaci

  • materiale per riparare traumi o danneggiamento per malattie ossee

  • riempimento di vuoti dopo la resezione dei tumori ossei

  • riparazione e fusione delle vertebre

  • riparazione di ernie del disco

  • riparazione di difetti maxillo-facciali e dentali

  • impianti oculari

Dissoluzione fosfato tricalcico

  • Alcuni fosfati di calcio si degradano nell’organismo alla stessa velocità di rigenerazione ossea.

  • La dissoluzione avviene per:

  • Dissoluzione fisiologica (dipendente da pH e tipo di fosfato).

  • Disintegrazione fisica (attacco preferenziale ai bordi dei grani).

  • Fattori biologici (fagocitosi, variazioni locali di pH).

Proprietà e stabilità dei fosfati di calcio

  • La porosità influenza fortemente le proprietà meccaniche e biologiche.

  • HA è altamente biocompatibile, favorisce la proliferazione di cellule ossee, ma non induce direttamente la formazione ossea.

  • Fosfati densi:

  • Minore tendenza a convertirsi in osso naturale.

  • Proprietà meccaniche elevate (resistenza a trazione 40-200 MPa, compressione 120-900 MPa).

  • Permettono apposizione diretta di nuovo osso senza strato fibroso intermedio.

  • Spesso usati come rivestimenti su leghe metalliche per migliorare l’integrazione ossea.

  • La stabilità dipende dal rapporto Ca/P (ideale tra 1,5 e 2).

  • Presenza di Mg riduce il contatto osseo e aumenta la degradazione.

Calcio fosfati porosi

Utilizzati come scaffold per la riparazione ossea a causa della capacità di riassorbirsi gradualmente e convertirsi in tessuto osseo naturale quando impiantati (come un network).

La risposta tissutale all'HA poroso è diversa dall'HA denso perché c'è una crescita interna.

Basse proprietà meccaniche

Non appropriato per le aree portanti dello scheletro in termini di sostituzione dell'osso corticale. Possibili utilizzi per l'induzione dell'osso trabecolare

Prodotto da polveri di HA miscelate con particelle varie

Usi: Chirurgia maxillo-facciale, chirurgia ortopedica

Calcio fosfati densi

Minore tendenza alla conversione in osso naturale

Proprietà meccaniche più elevate

Apposizione ossea diretta di nuovo osso all'HA. Contatto diretto senza strato fibroso intermedio

Spesso utilizzato come rivestimento su leghe metalliche. L'uso di rivestimenti HA è un tentativo di migliorare la risposta dell'osso circostante o dei tessuti molli a un impianto metallico o ceramico (protesi dentali, anca, ginocchio)

La stabilità dello strato è correlata al rapporto Ca/P (2 - 1,5)

  • 1,67 <rapporto< 2 danno un contatto osseo forte e intimo (legame chimico)

  • La presenza di Mg mostra un minore contatto osseo e una maggiore degradazione

  • le sollecitazioni residue possono indurre fessurazioni

Biovetro

Un biovetro è un materiale bioceramico composto principalmente da ossidi di silicio, calcio, sodio e fosfato, che mostra biocompatibilità con i tessuti cellulari e ha la capacità di formare un legame biologico diretto con il tessuto osseo.

Quando impiantato, il biovetro interagisce con i fluidi corporei formando uno strato superficiale di idrossiapatite carbonata (HCA), simile alla componente minerale naturale dell'osso, che favorisce l’adesione e la crescita delle cellule ossee, stimolando la rigenerazione e la riparazione ossea.

Questi materiali sono utilizzati in ortopedia e odontoiatria per ossa artificiali e protesi dentarie, grazie anche alle loro proprietà bioattive, biodegradabili e antibatteriche, che riducono il rischio di infezioni e modulano la risposta infiammatoria locale.

Tipologie di biovetri

I biovetri si suddividono principalmente in tre tipologie in base alla loro composizione chimica e alle proprietà bioattive: biovetri silicati, biovetri borati e biovetri fosfati.

Biovetri silicati

  • Composti principalmente da silice (SiO₂), ossido di calcio (CaO), ossido di sodio (Na₂O) e anidride fosforica (P₂O₅).

  • Sono i più studiati e utilizzati, con il Bioglass 45S5 come esempio classico.

  • Hanno un rapporto calcio/fosforo simile a quello dell’osso naturale, favorendo la formazione di uno strato di idrossiapatite carbonata (HCA) sulla superficie, che consente un forte legame chimico con il tessuto osseo.

  • La silice forma la rete vetrosa, mentre CaO e Na₂O agiscono come modificatori rompendo la rete e aumentando la reattività del vetro.

  • La bioattività è massima con contenuto di silice inferiore al 60%; oltre questa soglia i vetri diventano bioinerti.

Biovetri borati

  • In questi vetri parte della silice è sostituita dall’ossido di boro (B₂O₃), che è anch’esso un ossido formatore.

  • La presenza del boro aumenta la solubilità e la reattività del vetro a contatto con i fluidi biologici, rendendoli più bioattivi e bioriassorbibili rispetto ai vetri silicatici.

  • Sono particolarmente adatti per applicazioni in cui è richiesta una degradazione più rapida, come la guarigione di ferite croniche.

  • La composizione può essere modulata per controllare il rilascio di ioni terapeutici (ad esempio Zn, Cu, Sr).

  • Tuttavia, un eccesso di boro può causare tossicità in vitro, anche se in vivo l’effetto è attenuato.

Biovetri fosfati

  • Composti principalmente da unità tetraedriche di fosfato (PO₄³⁻) con CaO e Na₂O come modificatori.

  • Hanno una composizione chimica affine alla fase minerale dell’osso, con alta solubilità e biodegradabilità.

  • La solubilità può essere regolata variando la composizione, permettendo un controllo preciso della degradazione e del rilascio di ioni.

  • Sono usati come materiali riassorbibili in applicazioni biomediche, spesso in combinazione con altri materiali per scaffold ossei.

Bioglass 45S5

Il Bioglass 45S5 è un vetro bioattivo composto principalmente da 45% in peso di biossido di silicio (SiO₂), 24,5% di ossido di calcio (CaO), 24,5% di ossido di sodio (Na₂O) e 6% di pentossido di fosforo (P₂O₅).

Composizione e caratteristiche principali

  • Il vetro ha un rapporto molare calcio/fosforo di 5:1, che favorisce la formazione di cristalli di apatite, simili alla componente minerale dell’osso naturale.

  • Il Bioglass 45S5 forma un forte legame chimico (bioattivo) con l’osso tramite la formazione di uno strato superficiale di idrossiapatite carbonata (HCA), che permette l’integrazione ossea e la stimolazione della rigenerazione. Il legame è così forte che non può essere rotto senza danneggiare l’osso.

  • Il materiale è bioattivo, osteoconduttivo e osteoinduttivo, stimolando la crescita ossea sia sulla superficie che all’interno dell’interfaccia osso-impianto.

  • Bioglass 45S5 è biodegradabile e si dissolve rilasciando ioni calcio, sodio, silicio e fosfato che favoriscono la proliferazione e differenziazione cellulare.

Proprietà meccaniche

  • Il Bioglass ha alta bioattività ma bassa resistenza meccanica, con una resistenza alla flessione di 40-60 MPa, insufficiente per applicazioni strutturali.

  • Il modulo di Young (30-35 GPa) è simile a quello dell’osso corticale, utile per impianti non portanti o caricati leggermente.

Importanza della composizione

  • Rapporti di Ca/P inferiori a 5:1 non permettono il legame efficace con l'osso.

  • Gli ioni calcio e silice agiscono come nuclei di cristallizzazione, aumentando la bioattività.

  • La composizione rende il Bioglass altamente reattivo in ambienti acquosi, facilitando l'integrazione ossea.

Ruolo del silicio nella connettività

Il silicio svolge un ruolo fondamentale nella connettività della rete vetrosa e nella biodegradabilità dei biovetri, soprattutto nei biovetri silicati.

Ruolo del silicio nella connettività

  • Nei biovetri silicati, il silicio è l’atomo principale che forma la rete vetrosa tramite legami covalenti Si–O–Si, creando una struttura tridimensionale reticolata.

  • La connettività di rete, cioè il numero medio di legami ossigeno a ponte per atomo di silicio, determina la stabilità e la resistenza del vetro.

  • Un contenuto elevato di silice aumenta la connettività e rende la rete più compatta e meno solubile, riducendo la velocità di dissoluzione e quindi la biodegradabilità.

  • Al contrario, una minore quantità di silice o la presenza di modificatori di rete (come Na⁺ o Ca²⁺) interrompono la rete, aumentando la solubilità e la bioattività.

Ruolo del silicio nella biodegradabilità

  • La biodegradabilità dei biovetri silicati dipende dalla capacità della rete vetrosa di dissolversi in ambiente biologico.

  • La dissoluzione libera ioni silicato (SiO₄⁴⁻) che stimolano la proliferazione e differenziazione cellulare, favorendo la rigenerazione ossea.

  • La velocità di dissoluzione è inversamente proporzionale alla connettività della rete: vetri con più silice sono meno degradabili, mentre vetri con meno silice e più modificatori sono più biodegradabili.

Biovetri non silicati (borati e fosfati)

  • Nei biovetri borati e fosfati, il silicio non è il componente principale della rete vetrosa.

  • Nei vetri borati, il boro sostituisce parzialmente il silicio come ossido formatore, formando legami B–O che creano una rete meno connessa e più facilmente degradabile rispetto ai silicati.

  • Nei vetri fosfati, la rete è costituita principalmente da unità PO₄³⁻; la loro biodegradabilità è elevata e modulabile variando la composizione.

  • In questi biovetri, il ruolo del silicio è quindi marginale o assente, e la connettività e biodegradabilità dipendono da altri ossidi formatori e modificatori.

Produzione dei Biovetri

I metodi di produzione dei biovetri, come il melt quench e il sol-gel, sono fondamentali per la realizzazione di materiali bioattivi utilizzati in ambito biomedico, in particolare per la rigenerazione ossea. Ecco una panoramica dettagliata di entrambi i processi.

Melt Quench (Fusione e Raffreddamento)

Il metodo melt quench prevede la fusione di una miscela di ossidi (come SiO₂, Na₂O, CaO e P₂O₅) a temperature elevate (1100–1300 °C), seguita da un rapido raffreddamento per ottenere un vetro amorfo.

Vantaggi

  • Tecnica consolidata e ampiamente utilizzata.

  • Adatta alla produzione di materiali in grande quantità.

  • Consente la realizzazione di materiali con buona resistenza meccanica.

Svantaggi

  • Elevato consumo energetico a causa delle alte temperature richieste.

  • Possibile perdita di componenti volatili come il P₂O₅ durante la fusione.

  • Difficoltà nel controllo preciso della composizione chimica e della porosità del materiale.

Sol-Gel

Nel metodo sol-gel i vetri vengono sintetizzati a basse temperature attraverso un processo chimico che consente un controllo molto fine sulla composizione e sulla struttura. Si parte da nanoparticelle di silicio e fosforo.

Il metodo prende il nome dalle due fasi chiave del processo: prima si forma un "sol", cioè una sospensione colloidale di precursori, che viene poi trasformato in un "gel", una rete tridimensionale solida ma ancora porosa. Questo approccio permette di ottenere vetri con una porosità estremamente elevata, una superficie specifica molto ampia e una bioattività potenziata, caratteristiche ideali per l’interazione con il tessuto osseo.

Perché usare il sol-gel?

Una delle principali ragioni per cui il metodo sol-gel è così apprezzato nella produzione di vetri bioattivi è la sua versatilità. A differenza dei metodi ad alta temperatura, il sol-gel permette di:

  • incorporare elementi terapeutici come zinco, rame, argento o stronzio,

  • regolare finemente la dimensione e la distribuzione dei pori,

  • ottenere materiali sotto forma di nanoparticelle, polveri, film, o scaffold tridimensionali.

In particolare, la struttura mesoporosa (con pori tra 2 e 50 nanometri) rende questi vetri capaci di rilasciare ioni bioattivi in modo controllato, stimolando la formazione di nuova matrice ossea.

Bioattività e meccanismi osteogenici

Dal punto di vista biologico, i vetri sol-gel si comportano in modo straordinario. Quando entrano in contatto con fluidi corporei, iniziano una serie di reazioni di superficie che portano rapidamente alla formazione di un sottile strato di apatite carbonata – simile alla componente minerale dell’osso. Questa reazione non solo favorisce l’integrazione del materiale con il tessuto circostante, ma fornisce anche uno stimolo diretto alla proliferazione e differenziazione cellulare, in particolare degli osteoblasti.

Inoltre, la possibilità di incorporare ioni terapeutici come Zn²⁺, Sr²⁺ o Cu²⁺ consente di modulare ulteriormente la risposta biologica: si possono stimolare processi come la mineralizzazione, la formazione di vasi sanguigni o la riduzione dell’infiammazione locale.

Forme e applicazioni

I materiali sol-gel possono essere trasformati in varie forme, a seconda dell’uso desiderato. Ad esempio:

  • le nanoparticelle sol-gel sono impiegate in odontoiatria per la remineralizzazione dei denti;

  • gli scaffold porosi, spesso realizzati usando schiume o polimeri naturali come "template", sono pensati per rigenerare difetti ossei, offrendo una struttura adatta alla migrazione cellulare e alla formazione di nuova matrice;

  • i rivestimenti sottili (coating) possono essere applicati su impianti metallici per migliorarne l’integrazione con l’osso e prevenirne l’infezione.

Limiti e prospettive

Nonostante i numerosi vantaggi, i vetri sol-gel presentano anche alcune sfide. Ad esempio, la loro fragilità meccanica può rappresentare un limite per applicazioni in carico. Tuttavia, si stanno sviluppando compositi ibridi (inorganico-organici) che migliorano resistenza ed elasticità, senza perdere bioattività.

Confronto tra Melt Quench e Sol-Gel

Caratteristica

Melt Quench

Sol-Gel

Temperatura di processo

Alta (1100–1300 °C)

Bassa (temperatura ambiente)

Controllo compositivo

Limitato

Elevato

Porosità

Bassa

Alta (micro/meso)

Consumo energetico

Elevato

Basso

Tempo di processo

Relativamente breve

Più lungo

Applicazioni ideali

Blocchi, granuli, coating

Rivestimenti, scaffold, nanoparticelle

Caratteristiche dei biovetri

I biovetri sono materiali vetrosi bioattivi caratterizzati da una serie di proprietà che li rendono particolarmente adatti per applicazioni biomediche, soprattutto nella rigenerazione ossea e nel rivestimento di impianti. Ecco le principali caratteristiche dei biovetri:

1. Bioattività

  • I biovetri sono in grado di formare un legame chimico diretto con il tessuto osseo e, in alcuni casi, anche con tessuti molli, grazie alla formazione di uno strato di idrossiapatite carbonata (HCA) sulla loro superficie quando sono a contatto con fluidi biologici.

  • Questo strato di HCA è simile alla componente minerale dell’osso naturale e favorisce l’adesione cellulare e la crescita ossea senza formazione di tessuto fibroso interposto.

2. Stimolazione cellulare e osteoproduzione

  • I prodotti di dissoluzione ionica rilasciati dal biovetro, in particolare ioni calcio (Ca) e silicio (Si), influenzano positivamente gli osteoblasti, stimolandoli a proliferare e a produrre nuovo tessuto osseo più rapidamente rispetto ad altri biomateriali sintetici.

3. Biodegradabilità e riassorbibilità

  • I biovetri sono materiali biodegradabili: si dissolvono lentamente nell’ambiente biologico, permettendo la sostituzione graduale con tessuto osseo nuovo.

  • La velocità di degradazione dipende dalla composizione chimica del vetro, dalla superficie specifica (dimensione delle particelle) e dalla morfologia (ad esempio, se usati come polveri o scaffold porosi).

4. Proprietà antibatteriche

  • Alcuni biovetri mostrano proprietà antibatteriche intrinseche grazie alla loro struttura porosa e al rilascio di ioni calcio e fosfato, che alzando il pH, creano un ambiente sfavorevole alla proliferazione batterica, riducendo il rischio di infezioni ricorrenti.

5. Proprietà meccaniche

  • I biovetri possiedono una buona resistenza a trazione (circa 100-200 MPa) e una resistenza all’abrasione paragonabile a materiali duri come lo zaffiro.

  • Tuttavia, sono materiali fragili, con tenacità a frattura generalmente bassa, soprattutto nella forma porosa, il che limita il loro uso in applicazioni che richiedono elevate prestazioni meccaniche.

6. Applicazioni

  • Utilizzati come materiali riempitivi o rivestimenti per impianti metallici, migliorando la biocompatibilità e favorendo l’ancoraggio osseo stabile.

  • Impiegati in polvere o come scaffold porosi per stimolare la rigenerazione ossea in difetti ossei o condizioni patologiche come l’osteomielite.

  • Additivi in paste dentifrice e materiali per la rigenerazione tissutale.

Sintesi

Caratteristica

Descrizione

Bioattività

Formazione rapida di strato di idrossiapatite carbonata (HCA) e legame chimico con l’osso

Stimolazione cellulare

Rilascio di ioni Ca e Si che promuovono proliferazione e differenziazione degli osteoblasti

Biodegradabilità

Degradazione controllata e sostituzione con tessuto osseo naturale

Proprietà antibatteriche

Ambiente sfavorevole alla proliferazione batterica grazie al rilascio ionico

Proprietà meccaniche

Resistenza a trazione 100-200 MPa, fragilità elevata, buona resistenza all’abrasione

Composizione chimica

Ossidi di Si, Ca, Na, P; composizione modulabile per ottimizzare bioattività e dissoluzione

Applicazioni

Rivestimenti protesici, scaffold ossei, paste dentifrice, materiali per rigenerazione tissutale

Osteointegrazione

È il processo biologico mediante il quale un impianto si integra stabilmente con l’osso circostante (legame fisico) senza formazione di tessuto fibroso interposto. Rappresenta il risultato finale della rigenerazione ossea e dipende dalla buona riuscita dei processi di osteoinduzione e osteoconduzione. L’osteointegrazione garantisce un ancoraggio diretto e duraturo dell’impianto, fondamentale per il successo clinico.

Osteoinduzione

È la capacità di un materiale o di un innesto di stimolare la differenziazione di cellule mesenchimali totipotenti (cellule staminali) in cellule osteogeniche (osteoblasti), che producono nuovo osso. Questo processo è mediato da fattori biochimici, come le proteine morfogenetiche ossee (BMP), che possono essere presenti nel materiale stesso o somministrate esternamente.
 L’osteoinduzione può avvenire in sedi ossee (osteoinduzione ortotopica) o in tessuti dove normalmente non si forma osso, come il muscolo (osteoinduzione eterotopica).

Osteoconduzione

È la capacità di un materiale di funzionare da impalcatura (scaffold) per la crescita di nuovo osso partendo da tessuto osseo preesistente. Il materiale osteoconduttivo favorisce l’adesione, la migrazione e la proliferazione delle cellule ossee lungo la sua superficie, guidando la neoformazione ossea.
 Tuttavia, da solo non induce la formazione di osso in tessuti molli o in assenza di osso preesistente.

Bioattività e meccanismi di osteoinduzione

La bioattività di un biomateriale è la sua capacità di interagire con i tessuti biologici inducendo una risposta specifica, come la formazione di un legame diretto con l’osso (legame chimico), senza interposizione di tessuto fibroso. Nei materiali bioattivi, questo processo si realizza attraverso una serie di fasi che coinvolgono modifiche superficiali, mineralizzazione e attivazione cellulare.

Meccanismi di osteoinduzione

L’osteoinduzione è la capacità di un materiale (o di un fattore) di indurre la differenziazione di cellule staminali o cellule mesenchimali in osteoblasti, cioè cellule in grado di formare nuovo tessuto osseo. È un meccanismo chiave per la rigenerazione ossea e si distingue dall’osteoconduzione, che invece si limita a fornire un supporto fisico per la crescita ossea.

Fasi del processo bioattivo e osteoinduttivo

  1. Modificazione della superficie del materiale: dopo l’impianto, la superficie del biomateriale subisce modifiche chimiche e fisiche dovute all’interazione con i fluidi corporei e all’assorbimento di proteine e fattori cellulari. Questo step è fondamentale per il riconoscimento da parte delle cellule e per l’attivazione di segnali biochimici che guidano la rigenerazione. Nello specifico avviene:

  • Scambio di ioni: Na⁺ e Ca²⁺ vengono rilasciati, sostituiti da H₃O⁺ → leggera alcalinizzazione favorevole ai precursori osteogenici e ostético antibatterico.

  • Formazione di gel di silice: come substrato per la successiva mineralizzazione.

  • Deposizione di calcio-fosfato amorfo, che cristallizza in HCA (idroxi-carbonato apatite) simile all’osso.

  1. Inizio della mineralizzazione: sulla superficie modificata si forma uno strato di apatite carbonata (simile all’idrossiapatite naturale dell’osso), che rappresenta il primo segnale di bioattività e favorisce l’adesione e la differenziazione cellulare.

  2. Accrescimento dello strato di apatite : lo strato di apatite si ispessisce, creando un ambiente favorevole alla colonizzazione da parte di cellule osteoprogenitrici e osteoblasti.

  3. Formazione di matrice di collagene mineralizzato: gli osteoblasti iniziano a produrre matrice extracellulare ricca di collagene, che viene mineralizzata in apposizione allo strato di apatite, completando la formazione di nuovo tessuto osseo.

Ruolo dei fattori di crescita e segnali cellulari

  • Fattori di crescita come TGF-β e BMP (bone morphogenetic proteins) sono fondamentali nei processi di osteoinduzione: stimolano la migrazione, la proliferazione e la differenziazione delle cellule staminali in osteoblasti.

  • Le cellule rispondono ai segnali tramite recettori specifici (es. recettori TGF-β tipo I, II, III), attivando vie intracellulari che regolano la produzione di matrice ossea e la mineralizzazione.

  • L’interazione cellula-matrice è mediata da proteine di adesione (come le integrine) che trasmettono segnali meccanici e biochimici tra la superficie del biomateriale e il citoscheletro cellulare, influenzando la risposta osteogenica.

Sintesi dei meccanismi osteoinduttivi

  • Osteoinduzione: il materiale induce la differenziazione di cellule staminali in osteoblasti (formazione di nuovo osso).

  • Bioattività: capacità di formare uno strato di apatite e di attivare la risposta cellulare e molecolare necessaria alla rigenerazione ossea.

  • Ruolo dei segnali: la presenza di fattori di crescita, la modifica della superficie e l’interazione cellula-matrice sono determinanti per la riuscita del processo.

Tipologie di bioattività

  • Classe A: Materiali osteoproduttivi e osteoconduttivi, stimolano direttamente la colonizzazione da parte di cellule osteogeniche e possono legarsi sia ai tessuti duri (osso) sia ai tessuti molli. Esempi: molti biovetri.

  • Classe B: Materiali osteoconduttivi, forniscono un’interfaccia biocompatibile che favorisce la crescita ossea partendo da tessuto osseo preesistente, senza stimolare direttamente la differenziazione cellulare. Esempi: idrossiapatite sintetica.

  • Classe O: non si legano né all’osso né ai tessuti molli.

Effetto della dissoluzione ionica e ruolo degli ioni

I biovetri rilasciano ioni in ambiente biologico, che svolgono ruoli chiave nella bioattività:

  • Ioni calcio (Ca²⁺): Stimolano la proliferazione e differenziazione degli osteoblasti, favorendo la mineralizzazione e la formazione ossea.

  • Ioni silicato (SiO₄⁴⁻): Il Si è noto per essere un elemento essenziale per i processi metabolici associati alla formazione e alla calcificazione del tessuto osseo

  • Ioni sodio (Na⁺): Contribuiscono a mantenere il bilancio ionico e il pH locale, facilitando la dissoluzione del vetro.

  • Ioni fosfato (PO₄³⁻): Essenziali per la formazione della matrice minerale ossea, partecipano alla deposizione di apatite.

  • Ioni argento, zinco, rame, stronzio (in biovetri modificati): Possono avere effetti terapeutici aggiuntivi, come stimolare la crescita ossea, promuovere l’angiogenesi o fornire attività antibatterica.

I biovetri quando si sciolgono in ambiente biologico rilasciano ioni, in particolare ioni calcio (Ca²⁺), sodio (Na⁺) e silicato (SiO₄⁴⁻), che influenzano il pH della soluzione circostante.

Effetto sul pH

  • Durante la dissoluzione, i biovetri tendono a innalzare il pH, rendendo l’ambiente più alcalino.

  • Questo aumento di pH è dovuto principalmente al rilascio di ioni alcalini come Na⁺ e Ca²⁺ e alla formazione di gruppi idrossilici (OH⁻) in soluzione.

  • L’ambiente alcalino creato può arrivare a valori di pH superiori a 8-9 nelle immediate vicinanze del materiale.

Effetto antibatterico

  • L’aumento del pH contribuisce a creare un ambiente sfavorevole alla crescita batterica, poiché molti microrganismi patogeni preferiscono un pH neutro o leggermente acido.

  • Inoltre, il rilascio di ioni calcio e silicato può interferire con le membrane cellulari batteriche e con i processi metabolici, potenziando l’effetto antibatterico.

  • Alcuni biovetri sono inoltre modificati con ioni specifici (es. argento, rame, zinco) che aumentano ulteriormente l’attività antibatterica.

Ruolo e proprietà degli ioni nei biovetri modificati

Ione

Effetto principale nei biovetri modificati

Argento (Ag⁺)

Potente azione antibatterica: l’argento è noto per la sua capacità di inibire la crescita batterica, riducendo il rischio di infezioni post-operatorie. L’incorporazione di Ag⁺ nei biovetri permette un rilascio controllato e localizzato di ioni antibatterici, senza effetti tossici per le cellule umane a concentrazioni adeguate.

Zinco (Zn²⁺)

Favorisce la formazione ossea (osteogenesi) e mostra attività antibatterica. Lo zinco stimola la proliferazione e la differenziazione degli osteoblasti, promuove la mineralizzazione e può contribuire anche alla regolazione della risposta immunitaria locale (antiinfiammatorio).

Rame (Cu²⁺)

Stimola l’angiogenesi (formazione di nuovi vasi sanguigni) e promuove la crescita delle cellule endoteliali. Il rame contribuisce anche a effetti antibatterici e può accelerare la guarigione dei tessuti.

Stronzio (Sr²⁺)

Promuove la formazione ossea e inibisce il riassorbimento osseo, risultando utile nella prevenzione e nel trattamento dell’osteoporosi. Lo stronzio stimola l’attività degli osteoblasti e riduce quella degli osteoclasti, migliorando la qualità e la quantità del tessuto osseo neoformato.

Magnesio

È essenziale per il metabolismo osseo ed è stato dimostrato che ha effetti stimolanti sulla formazione di nuovo osso (osteogenesi).

Boro

È stato dimostrato che il boro influenza la sintesi dell'RNA nelle cellule dei fibroblasti. Inoltre, il boro alimentare può stimolare la formazione ossea (osteogenesi)

Meccanismo d’azione

  • Questi ioni vengono incorporati nella matrice vetrosa durante la sintesi (sia melt-quenching che sol-gel).

  • Una volta impiantato, il biovetro rilascia gradualmente gli ioni nell’ambiente circostante, dove esercitano i loro effetti biologici specifici.

  • Il rilascio ionico può essere modulato variando la composizione e la struttura del biovetro, permettendo di personalizzare la risposta terapeutica.

Effetti biologici complessivi

  • Antibatterico: argento, zinco e rame riducono il rischio di infezioni.

  • Osteogenico: zinco e stronzio stimolano la formazione di nuovo osso.

  • Angiogenico: rame (e in parte stronzio) favorisce la formazione di vasi sanguigni, essenziale per la rigenerazione tissutale.

  • Antiriassorbimento: stronzio riduce la perdita di massa ossea.

Applicazioni

  • Rigenerazione ossea avanzata (in pazienti a rischio di infezioni o con deficit di guarigione).

  • Scaffold per ingegneria tissutale e dispositivi implantari con proprietà antibatteriche e osteoinduttive.

  • Trattamento di difetti ossei complessi e prevenzione dell’osteoporosi.

Simulated Body Fluid (SBF)

Il Simulated Body Fluid (SBF) è una soluzione che riproduce la concentrazione ionica del plasma sanguigno umano, mantenuta a un pH e temperatura fisiologici per simulare le condizioni del corpo umano.

È un metodo in vitro per valutare la bioattività di materiali come i vetri bioattivi, osservando la formazione di uno strato di apatite simile all’osso sulla superficie dei materiali immersi in SBF. Questo strato di apatite è considerato un indicatore predittivo della capacità del materiale di legarsi all’osso vivo in vivo.

Polimeri

Cos’è un polimero

  • Materiale organico con peso molecolare elevato, formato dall’unione di molte molecole semplici (monomeri) tramite processi controllati (temperatura, pressione, catalizzatori).

  • I termini polimero, plastica e resina sono spesso usati come sinonimi.

  • Un additivo è una sostanza aggiunta al polimero per modificarne le proprietà fisiche, chimiche o funzionali.

  • La plastica o resina è un materiale polimerico che contiene additivi; il termine “resina” è spesso usato per materiali termoindurenti.

Classificazione in base alla composizione chimica

  • Omopolimeri: polimeri costituiti da un solo tipo di monomero (ad esempio, il polietilene).

  • Copolimeri: polimeri costituiti da due o più tipi di monomeri. Si distinguono in:

  • Copolimeri random (monomeri disposti casualmente)

  • Copolimeri alternati (monomeri alternati regolarmente)

  • Copolimeri a blocchi (blocchi di monomeri omopolimerici alternati)

  • Copolimeri a innesto o graft (catena principale di un omopolimero con catene laterali di un altro omopolimero).

Classificazione in base alla struttura molecolare

  • Polimeri lineari: catene di monomeri disposte in modo lineare senza ramificazioni significative.

  • Polimeri ramificati: catene con ramificazioni laterali.

  • Polimeri reticolati: catene con legami incrociati che formano una rete tridimensionale.

  • Polimeri amorfi: le catene polimeriche sono disposte in modo casuale e disordinato, senza un ordine a lungo raggio

  • Polimeri cristallini: presentano regioni ordinate (cristalline) in cui le catene sono impacchettate in modo regolare e compatto, alternate a regioni amorfe disordinate

Polimeri amorfi

  • Struttura: Le catene polimeriche sono disposte in modo casuale e disordinato, senza un ordine a lungo raggio.

  • Proprietà termiche: Non presentano un punto di fusione netto, ma una temperatura di transizione vetrosa (Tg), alla quale passano da uno stato vetroso duro e fragile a uno gommoso e più elastico.

  • Proprietà meccaniche: Sono generalmente più flessibili e trasparenti, con buona resistenza agli urti, ma tendono ad avere una resistenza meccanica e chimica inferiore rispetto ai semicristallini.

  • Esempi: polistirene (PS), polimetilmetacrilato (PMMA), policarbonato (PC).

Polimeri semicristallini (o cristallini)

  • Struttura: Presentano regioni ordinate (cristalline) in cui le catene sono impacchettate in modo regolare e compatto, alternate a regioni amorfe disordinate.

  • Proprietà termiche: Hanno un punto di fusione definito (Tm) dovuto alla fusione delle regioni cristalline, oltre alla temperatura di transizione vetrosa della fase amorfa. La fusione è una transizione termodinamica con assorbimento di calore latente.

  • Proprietà meccaniche: Sono più duri, rigidi e termicamente stabili, con maggiore resistenza meccanica e chimica, ma meno flessibili e più fragili rispetto ai polimeri amorfi. La componente amorfa conferisce elasticità e resistenza agli urti.

  • Fattori che influenzano la cristallinità: regolarità costituzionale e stereochimica dei monomeri (es. isotatticità), velocità di raffreddamento durante la lavorazione.

  • Esempi: polietilene (PE), polipropilene (PP).

Classificazione dei polimeri in base alla configurazione e conformazione

La classificazione dei polimeri in base alla configurazione e alla conformazione riguarda l’ordine spaziale delle catene polimeriche e ha un ruolo fondamentale nelle proprietà fisiche e chimiche dei materiali polimerici.

Configurazione

La configurazione si riferisce alla disposizione spaziale fissa dei gruppi attorno ai legami chimici nella catena polimerica, che non può essere modificata senza rompere legami covalenti. È legata alla stereochimica del polimero e determina la stereoregolarità della catena.

  • Isotattico: tutti i gruppi laterali (R) si trovano dalla stessa parte della catena polimerica. Questo ordine regolare favorisce la cristallinità e conferisce al polimero proprietà meccaniche e termiche elevate.

  • Sindiotattico: i gruppi laterali si alternano regolarmente da un lato all’altro della catena.

  • Atattico: i gruppi laterali sono disposti in modo casuale lungo la catena, rendendo il polimero amorfo e meno cristallino.

Un esempio è il polipropilene, che può esistere in queste tre configurazioni, con proprietà molto diverse a seconda della stereoregolarità.

Inoltre, la configurazione riguarda anche la presenza di doppi legami con isomeria cis o trans, che influenzano la rigidità e la cristallinità del polimero (ad esempio nel polibutadiene).

Conformazione

La conformazione riguarda la disposizione spaziale delle catene polimeriche che può variare per rotazione intorno ai legami semplici senza la rottura di legami chimici. È quindi una proprietà dinamica e flessibile.

  • Le catene polimeriche possono assumere diverse conformazioni (ad esempio a spirale, zig-zag, piegata) a seconda delle condizioni ambientali e delle interazioni intermolecolari.

  • La conformazione determina il grado di ordine locale e la capacità di formare strutture ordinate come i cristalli.

  • Nei polimeri cristallini, le catene assumono conformazioni preferenziali che permettono l’impacchettamento regolare.

Importanza della distinzione

  • La configurazione è fissa e definita dalla chimica del monomero e dalla modalità di polimerizzazione.

  • La conformazione è variabile e dipende da fattori fisici come temperatura, tensione e interazioni intermolecolari.

Questa distinzione è fondamentale perché la configurazione influisce sulla capacità del polimero di cristallizzare e sulle sue proprietà meccaniche, mentre la conformazione determina il comportamento dinamico e la risposta del polimero alle sollecitazioni esterne.

Classificazione in base alle proprietà meccaniche e termiche

Termoplastici

  • Proprietà termiche: I termoplastici si ammorbidiscono riscaldandosi e possono essere rimodellati più volte senza alterazioni chimiche permanenti. Presentano una temperatura di transizione vetrosa (Tg) e, se semicristallini, una temperatura di fusione (Tm). Sotto Tg sono duri e fragili (stato vetroso), sopra Tg diventano gommosi e più duttili.

  • Proprietà meccaniche: Hanno un comportamento viscoelastico, con modulo elastico che dipende dalla temperatura e dal tempo di applicazione dello sforzo. Sopra Tg mostrano comportamento duttile, sotto Tg comportamento fragile. Il modulo di elasticità e la resistenza aumentano con la cristallinità del polimero, mentre l’allungamento a rottura diminuisce.

  • Esempi: polietilene (PE), polipropilene (PP), polistirene (PS), policarbonato (PC), poliammidi (PA).

Termoindurenti

  • Proprietà termiche: Una volta induriti, non si ammorbidiscono più con il calore e non possono essere rimodellati. Sono caratterizzati da una rete tridimensionale di legami covalenti (reticolazione) che conferisce rigidità e stabilità termica.

  • Proprietà meccaniche: Presentano comportamento fragile e duro, con elevata resistenza meccanica e modulo elastico elevato. Non mostrano snervamento e hanno un basso allungamento a rottura. Sono insolubili e infusibili.

  • Esempi: resine epossidiche, poliuretani (PUR), resine fenoliche.

Elastomeri

Gli elastomeri sono polimeri naturali o sintetici caratterizzati da un’elevata elasticità, cioè possono essere allungati anche di 10 volte la loro lunghezza originale e tornare rapidamente alla forma iniziale una volta rimosso lo sforzo. Sono materiali gommosi con un basso modulo elastico e un ottimo ritorno elastico, molto usati in applicazioni industriali come componenti automotive, suole di scarpe, isolamenti e altro.

Gli elastomeri si dividono in due categorie principali:

  • Elastomeri termoplastici: possono essere riscaldati e rimodellati più volte, sono copolimeri di stirene, butadiene, poliolefine o poliesteri.

  • Elastomeri termoindurenti: vengono reticolati (vulcanizzati) chimicamente, ad esempio con zolfo, e una volta induriti non possono essere rifusi.

Le proprietà chiave degli elastomeri includono resistenza all’usura, all’invecchiamento, capacità di assorbire energia e ottima elasticità anche a temperature ambiente. La loro struttura molecolare con legami reticolati permette queste caratteristiche uniche.

Proprietà degli elastomeri

  • Proprietà termiche: Sono polimeri con capacità di grandi deformazioni elastiche. Non si fondono perché le catene sono reticolate con legami deboli o forti che formano una rete spaziale a maglie larghe.

  • Proprietà meccaniche: Mostrano comportamento elastomerico con elevata elasticità e capacità di recuperare la forma originale dopo deformazioni anche molto grandi. Sopra Tg sono gommosi e molto duttili, con comportamento viscoelastico.

Inoltre, la temperatura di transizione vetrosa (Tg) è un parametro chiave che determina il passaggio del polimero da uno stato vetroso fragile a uno stato gommoso più elastico, influenzando fortemente le proprietà meccaniche a seconda della temperatura di utilizzo.

Classificazione in base all'origine

  • Polimeri naturali: prodotti dalla natura, come la cellulosa, le proteine (lana, seta) e il caucciù naturale.

  • Polimeri artificiali: ottenuti modificando polimeri naturali, come l'acetato di cellulosa.

  • Polimeri sintetici: prodotti tramite sintesi chimica da monomeri, come il PVC, il polietilene, il poliestere, il nylon.

Classificazione in base al processo di polimerizzazione

  • Polimeri di addizione: formati dall'addizione ripetuta di monomeri con doppi legami, senza perdita di molecole (es. polietilene, polipropilene, polistirene).

  • Polimeri di condensazione: formati dalla reazione di monomeri con perdita di piccole molecole come acqua (es. poliesteri, poliammidi come il nylon).

Proprietà chimiche e fisiche dei polimeri

Le proprietà chimiche e fisiche dei polimeri sono influenzate dalla loro struttura, composizione e dalle interazioni tra le catene polimeriche. I polimeri possono essere classificati come termoplastici, termoindurenti o elastomeri, a seconda del loro comportamento termico e meccanico.

Proprietà chimiche

  • Resistenza agli agenti chimici: Molti polimeri sono resistenti alle sostanze chimiche, il che li rende adatti per imballaggi e contenitori.

  • Isolamento elettrico e termico: I polimeri sono generalmente buoni isolanti elettrici e termici, utilizzati in applicazioni come rivestimenti di cavi e manici di pentole.

  • Inerzia chimica: Alcuni polimeri, come il polietilene (PE) e il polipropilene (PP), sono sostanzialmente inerti, mentre altri, come il PET e il nylon, possono subire reazioni come l'idrolisi.

  • Invecchiamento: I polimeri possono subire processi di invecchiamento a causa dell'ossidazione delle catene polimeriche, che può alterare le loro proprietà.

Proprietà fisiche

  • Peso molecolare elevato: I polimeri sono caratterizzati da un elevato peso molecolare, il che significa che il distacco o l'attacco di un singolo monomero non altera significativamente le loro proprietà.

  • Impermeabilità: Molti polimeri sono impermeabili all'acqua.

  • Rapporto resistenza/peso: I polimeri sono spesso leggeri ma hanno un elevato rapporto resistenza/peso.

  • Comportamento viscoelastico: I polimeri mostrano un comportamento viscoelastico, combinando caratteristiche sia elastiche che viscose. L'energia meccanica fornita a un polimero viene parzialmente dissipata come calore e parzialmente immagazzinata come energia potenziale.

  • Microstruttura: La disposizione dei monomeri lungo la catena polimerica (microstruttura) influenza proprietà come la resistenza meccanica, la tenacità, la durezza e la resistenza alla corrosione.

  • Densità I materiali polimerici hanno una bassa densità volumica, e quindi sono leggeri.

Proprietà meccaniche

  • Durezza Alcuni polimeri, come il polipropilene e il policarbonato, presentano un'eccellente durezza.

  • Elasticità e resistenza alla trazione I polimeri possono mostrare diverse proprietà di elasticità e resistenza alla trazione.

  • Resistenza alla compressione Alcuni materiali termoplastici hanno una notevole resistenza alla compressione.

  • Resistenza all'urto Polimeri come l'ABS (acrilonitrile-butadiene-stirene) e il policarbonato mostrano un'elevata resistenza all'urto.

  • Comportamento fragile, plastico o elastomero I materiali polimerici possono presentare diversi comportamenti meccanici: fragile (alti carichi, basse deformazioni), plastico (resistenza meccanica inferiore, maggiore allungamento) o elastomero (elevata elasticità).

Struttura dei Polimeri: Legami e Forze

  • Legami molecolari (intra-molecolari): Tengono insieme gli atomi all’interno della molecola.

  • Covalenti: Atomi condividono elettroni, molto stabili.

  • Ionici: Un atomo cede elettroni a un altro, creando ioni di carica opposta.

  • Metallici: Elettroni liberi tra molti atomi, tipici dei metalli.

  • Forze intermolecolari: Interazioni tra molecole diverse, influenzano proprietà fisiche (fusione, ebollizione, solubilità).

  • Van der Waals: Le più deboli, presenti in tutte le molecole.

  • Dipolo-dipolo: Tra molecole polari.

  • Legami a idrogeno: Forti, tra idrogeno e atomi molto elettronegativi (O, N, F).

Peso molecolare

Il peso molecolare nei polimeri è una grandezza fondamentale ma non un valore unico, poiché un campione di polimero è costituito da catene di lunghezze diverse e quindi con pesi molecolari differenti.

Il grado di polimerizzazione indica il numero di unità ripetitive nella catena ed è correlato al peso molecolare.

Proprietà dei polimeri in funzione del peso molecolare

  • Esiste un peso molecolare minimo sotto il quale le proprietà meccaniche sono scarse o trascurabili.

  • Al di sopra di questo valore, le proprietà meccaniche (resistenza, durezza, lavorabilità) aumentano con il peso molecolare e raggiungono un plateau a valori elevati.

  • Nei polimeri con interazioni intermolecolari forti (es. poliammidi con legami a idrogeno), anche pesi molecolari più bassi possono dare buone proprietà meccaniche, mentre in polimeri come il polietilene sono necessari pesi molecolari elevati per ottenere buone prestazioni.

Proprietà in funzione della temperatura

Le proprietà fisiche e meccaniche dei polimeri dipendono fortemente dalla temperatura, in particolare in relazione a due temperature critiche:

  • Temperatura di transizione vetrosa (Tg): temperatura alla quale il polimero passa da uno stato vetroso, duro e fragile, a uno stato gommoso, più duttile e deformabile. Sotto Tg il materiale è rigido, sopra Tg diventa elastico e più deformabile.

  • Temperatura di fusione (Tm): presente nei polimeri semicristallini, è la temperatura alla quale le regioni cristalline si fondono e il polimero passa allo stato liquido o altamente viscoso.

Il comportamento meccanico e termico varia quindi con la temperatura:

  • Sotto Tg: polimero rigido, fragile, con basso allungamento a rottura.

  • Tra Tg e Tm (per polimeri semicristallini): polimero gommoso, elastico, con buona resistenza meccanica.

  • Sopra Tm: polimero fuso o plastificato, facilmente lavorabile o deformabile.

In sintesi, il peso molecolare e la temperatura sono due parametri chiave che influenzano le proprietà meccaniche, termiche e di lavorabilità dei polimeri. Un peso molecolare adeguato garantisce buone prestazioni meccaniche, mentre la temperatura determina lo stato fisico e il comportamento elastico o fragile del materiale.

Polietilene (PE)

Descrizione e Struttura

Il polietilene è un polimero termoplastico composto da catene di etilene (–CH₂–CH₂–)ₙ. Esistono diverse varianti:

  • LDPE (Low-Density PE): Struttura ramificata, flessibile.

  • HDPE (High-Density PE): Struttura lineare, più rigida.

  • UHMWPE (Ultra-High Molecular Weight PE): Catene ultra-lunghe (peso molecolare > 10⁶ g/mol), eccezionale resistenza.

Proprietà Biomediche

  • Biocompatibilità: Elevata (specie UHMWPE, usato in impianti a lungo termine).

  • Resistenza chimica: Inerte a fluidi biologici.

  • Usura: UHMWPE ha basso attrito e alta resistenza all’abrasione.

Applicazioni Biomediche

  • Protesi articolari: UHMWPE è lo standard per le superfici di contatto in protesi d’anca e ginocchio (accoppiato a metalli come il titanio).

  • Dispositivi chirurgici: Tubi per drenaggi (HDPE), sacche per sangue (LDPE).

  • Ingegneria tissutale: Scaffold porosi per riparazione ossea (in combinazione con ceramiche).

Polietilene tereftalato (PET)

Descrizione e Struttura

Polimero termoplastico della famiglia dei poliesteri, con unità ripetute di etilene tereftalato.

Proprietà Biomediche

  • Resistenza meccanica: Elevata (simile a tessuti connettivi).

  • Stabilità dimensionale: Mantiene forma sotto stress.

  • Biocompatibilità: Usato in impianti vascolari grazie alla scarsa reazione immunitaria.

Applicazioni Biomediche

  • Protesi vascolari: Tubi in PET (es. Dacron®) per bypass aortico.

  • Membrane chirurgiche: Per riparazione di ernie o difetti ossei.

  • Suture non riassorbibili: Filamenti in PET per chirurgia cardiaca.

Polistirene (PS)

Descrizione e Struttura

Polimero a catena rigida con anelli aromatici, disponibile in forma standard o espansa (EPS).

Proprietà Biomediche

  • Trasparenza: Utile per dispositivi diagnostici.

  • Fragilità: Limitato uso in impianti.

  • Biocompatibilità: Bassa se non modificato (usato in contesti non-impiantabili).

Applicazioni Biomediche

  • Dispositivi di laboratorio: Piastre per colture cellulari (trattate per favorire l’adesione cellulare).

  • Componenti monouso: Provette, pipette.

Polipropilene (PP)

Descrizione e Struttura

Termoplastico con gruppi metilici (–CH₃) che ne aumentano la rigidità rispetto al PE.

Proprietà Biomediche

  • Resistenza termica: Autoclavabile (sterilizzabile a 121°C).

  • Inerzia chimica: Resistente a molti fluidi corporei.

Applicazioni Biomediche

  • Suture chirurgiche: Filamenti non riassorbibili (es. Prolene®).

  • Membrane per ernie: Reti in PP per riparazione della parete addominale.

  • Dispositivi medici: Corpi di siringhe, filtri per dialisi.

Polivinilcloruro (PVC)

Descrizione e Struttura

Polimero con atomi di cloro che conferiscono rigidità (senza plastificanti) o flessibilità (con ftalati).

Proprietà Biomediche

  • Problemi di biocompatibilità: I plastificanti (ftalati) possono migrare (tossicità).

  • Alternative: PVC medicale senza ftalati (DEHP-free).

Applicazioni Biomediche

  • Tubi per flebo: Flessibili e trasparenti.

  • Sacche per sangue e soluzioni: Sterili e monouso.

Acido polilattico (PLA)

Descrizione e Struttura

Polimero biodegradabile derivato da fonti rinnovabili (fermentazione di zuccheri).

Proprietà Biomediche

  • Degradazione: Idrolisi in acido lattico (metabolizzato dal corpo).

  • Modulabilità: La velocità di degradazione varia con il peso molecolare.

Applicazioni Biomediche

  • Suture riassorbibili: Scompare in 6-12 mesi.

  • Scaffold per ingegneria tissutale

  • Viti, chiodi e dispositivi ortopedici riassorbibili

  • Sistemi per rilascio controllato di farmaci

  • Filler dermici estetici (PLLA: es. Sculptra®)

  • Modelli chirurgici stampati in 3D

Acrilonitrile-butadiene-stirene (ABS)

Descrizione e Struttura

Copolimerizzato da tre monomeri, bilancia rigidità e tenacità.

Proprietà Biomediche

  • Non biocompatibile: Usato solo per dispositivi esterni.

  • Stampabilità 3D: Ideale per prototipi.

Applicazioni Biomediche

  • Dispositivi diagnostici: Housing per apparecchiature.

  • Modelli chirurgici: Pianificazione pre-operatoria.

Policarbonato (PC)

Descrizione e Struttura

Polimero con gruppi carbonato (–O–CO–O–), trasparente e resistente.

Proprietà Biomediche

  • Trasparenza ottica: Pari al vetro.

  • Resistenza agli urti: Ideale per dispositivi riutilizzabili.

Applicazioni Biomediche

  • Dispositivi medici: Cappe per incubatrici, camere per dialisi.

  • Lenti a contatto: Versioni rigide gas-permeabili.

Politetrafluoroetilene (PTFE)

Descrizione e Struttura

Catene fluorurate (–CF₂–CF₂–)ₙ con eccezionale inerzia chimica.

Proprietà Biomediche

  • Antiaderenza: Resistenza alla colonizzazione batterica.

  • Biosabilità: Non degradabile nel corpo.

Applicazioni Biomediche

  • Protesi vascolari: Tubi in PTFE espanso (es. Gore-Tex®).

  • Chirurgia ricostruttiva: Membrane per difetti cranici.

Confronto Riassuntivo

Polimero

Biocompatibilità

Degradabilità

Applicazione Principale

PE (UHMWPE)

Alta

No

Protesi articolari

PET

Alta

No

Protesi vascolari

PS

Bassa

No

Dispositivi diagnostici

PP

Alta

No

Suture e reti chirurgiche

PVC

Limitata*

No

Tubi per flebo

PLA

Alta

Sì (6-24 mesi)

Suture riassorbibili

ABS

Bassa

No

Prototipi 3D

PC

Alta

No

Dispositivi trasparenti

PTFE

Alta

No

Protesi vascolari

*PVC medicale DEHP-free è più sicuro.

Gomma naturale

La gomma naturale è composta principalmente da cis-1,4 poliisoprene, un polimero a lunga catena con gruppi metilici disposti dalla stessa parte del doppio legame carbonio-carbonio, conferendo elasticità. L’isomero trans-1,4 poliisoprene, chiamato guttaperca, è invece rigido e non elastico.

Isomorfismo e allotropia

L’isomorfismo e l’allotropia sono due fenomeni distinti che riguardano la struttura dei materiali, ma si riferiscono a concetti diversi:

  • Isomorfismo è il fenomeno per cui due o più sostanze diverse, con composizione chimica diversa, cristallizzano nello stesso sistema cristallino e assumono strutture geometriche molto simili. Questi materiali possono anche formare soluzioni solide, con atomi o ioni che si sostituiscono reciprocamente nel reticolo cristallino senza alterarne la forma. L’isomorfismo riguarda quindi sostanze differenti che condividono la stessa struttura cristallina.

  • Allotropia è invece un fenomeno che riguarda una sostanza semplice (un solo elemento chimico) che può esistere in diverse forme strutturali o modificazioni cristalline. Queste diverse forme allotropiche hanno la stessa composizione chimica elementare, ma differiscono per la disposizione degli atomi e quindi per le proprietà fisiche. Un esempio classico è il carbonio, che si presenta come diamante e grafite, due allotropi con caratteristiche molto diverse.

In sintesi:

  • L’isomorfismo riguarda sostanze diverse con strutture cristalline simili.

  • L’allotropia riguarda forme diverse di uno stesso elemento con diverse strutture atomiche o cristalline.

Entrambi i fenomeni influenzano le proprietà fisiche dei materiali, ma l’isomorfismo è tipico di composti diversi che condividono la stessa struttura, mentre l’allotropia si riferisce a modificazioni strutturali di un singolo elemento chimico.

Biomateriali metallici

I materiali metallici trovano larghissimo impiego in campo biomedicale

Principali proprietà dei metalli

I metalli sono policristalli, ovvero sono solidi formati da numerosi cristalli microscopici detti cristalliti (anche chiamati "grani" in ambito metallurgico).

Nei cristalli gli atomi sono disposti in modo regolare, formando una struttura ordinata e ripetitiva, chiamata reticolo cristallino.

Per ogni reticolo cristallino è possibile individuare una cella elementare o unitaria, cioè la più piccola parte del cristallo che, ripetuta nello spazio attraverso traslazioni, forma l'intero cristallo.

Il reticolo cristallino può essere descritto in base alle dimensioni e alla geometria della cella elementare, che è assimilabile a un parallelepipedo, ovvero tramite sei parametri:

  • le lunghezze degli assi a, b, c, denominati assi cristallografici

  • i tre angoli α, β, γ, formati dagli assi della cella.

I modi di costruire i reticoli cristallini sono:

  • Sistemi cristallini: sono classificazioni basate sulle forme geometriche delle celle convenzionali che descrivono la simmetria e i parametri della cella elementare. Esistono 7 sistemi cristallini fondamentali: cubico, tetragonale, ortorombico, monoclino, triclino, esagonale e romboedrico (o trigonale). Questi sistemi indicano la forma generale e la simmetria della cella unità, senza specificare la posizione dei punti all’interno della cella.

  • Reticoli di Bravais: sono insiemi infiniti di punti nello spazio che rappresentano la periodicità e la disposizione regolare degli atomi nel cristallo. Un reticolo di Bravais è definito da una cella unitaria (o cella primitiva) e da un insieme di vettori primitivi che generano tutti i punti del reticolo tramite traslazioni. I reticoli di Bravais sono classificati non solo in base al sistema cristallino (forma della cella), ma anche in base alla centratura della cella (primitiva, corpo centrato, facce centrate, base centrata). In 3D esistono 14 reticoli di Bravais, distribuiti nei 7 sistemi cristallini.

In sintesi, il sistema cristallino definisce la forma e la simmetria della cella, mentre il reticolo di Bravais specifica la disposizione e la periodicità dei punti reticolari all’interno di quella cella.

Tabella riassuntiva dei Sistemi Cristallini e Reticoli di Bravais (3D)

Sistema Cristallino

Parametri Cella (a, b, c; α, β, γ)

Reticoli di Bravais (centrature)

Numero Reticoli

Cubico

a = b = c; α = β = γ = 90°

Primitivo (P), Corpo centrato (I), Facce centrate (F)

3

Tetragonale

a = b ≠ c; α = β = γ = 90°

Primitivo (P), Corpo centrato (I)

2

Ortorombico

a ≠ b ≠ c; α = β = γ = 90°

Primitivo (P), Corpo centrato (I), Facce centrate (F), Base centrata (C)

4

Monoclino

a ≠ b ≠ c; α = γ = 90° ≠ β

Primitivo (P), Base centrata (C)

2

Triclino

a ≠ b ≠ c; α ≠ β ≠ γ ≠ 90°

Primitivo (P)

1

Esagonale

a = b ≠ c; α = β = 90°, γ = 120°

Primitivo (P)

1

Romboedrico (Trigonale)

a = b = c; α = β = γ ≠ 90°

Primitivo (P) o centrato (R) (centratura speciale)

1

Ogni cella elementare è caratterizzata da tre indici:

  • il numero di coordinazione (), che rappresenta il numero di atomi con cui ogni atomo è a contatto;

  • il numero di atomi per cella (), cioè il numero intero di atomi che competono alla cella elementare;

  • il fattore di impaccamento (), che è il rapporto tra il volume occupato dagli atomi in una cella e il volume della cella stessa, e ci dà un’informazione di quando è denso l’impaccamento.

I materiali metallici, tuttavia, solidificano secondo un numero ancora più ridotto di reticoli, comuni alla quasi totalità degli elementi metallici.

La geometria è dettata innanzi tutto dal fatto che il legame metallico non ha carattere direzionale, come vedremo in dettaglio tra poco e contrariamente al legame covalente, e per questo gli atomi tendono a disporsi in modo da rendere massimo il numero di atomi vicini.

Il fattore prevalente che determina la struttura del reticolo dei metalli è, quindi, l’efficienza di riempimento dello spazio.

I principali reticoli metallici possono essere visti come il modo più compatto di disporre nello spazio delle sfere rigide, tutte uguali.

In natura esistono solidi monocristallini, in cui l’ordine reticolare si estende per tutto il volume del solido.

La maggioranza dei solidi cristallini, tuttavia, si presenta come agglomerati di cristalli microscopici, a cui abbiamo già accennato parlando di grani o cristalliti. Essi sono denominati solidi policristallini. Tutti i solidi metallici sono policristallini.

Le dimensioni dei grani sono immagine della velocità a cui avviene il processo di raffreddamento e i loro bordi rappresentano un'importante zona di discontinuità della struttura metallica.

Nei solidi policristallini, quindi anche nei metalli, i grani sono tipicamente disposti in maniera casuale, a meno che non si creino direzioni preferenziali in virtù di qualche fenomeno specifico.

Pertanto, nonostante il singolo cristallite (o grano) sia anisotropo, ovvero le sue proprietà dipendono dalla direzione, il fatto che essi siano nel complesso orientati in modo casuale fa sì che il materiale sia ISOTROPO, cioè le sue proprietà risultano le stesse in ogni direzione.

Legame metallico

Molte delle proprietà dei metalli si spiegano tenendo conto dello specifico tipo di legame che si instaura in questi materiali:

  • Le densità dei metalli sono le più elevate tra le varie classi di materiali → i metalli cristallizzano in strutture compatte che massimizzano l'impacchettamento degli atomi, riducendo il volume a parità di massa.

  • L’alta conducibilità termica ed elettrica dei metalli è dovuta al fatto che tali materiali presentano un’elevata mobilità degli elettroni.

La formazione di un legame covalente*, localizzato e direzionale per la necessità di condividere coppie di elettroni tra atomi vicini, non spiegherebbe la mobilità degli elettroni osservata nei metalli.

Nei metalli gli elettroni di valenza di ogni singolo atomo non sono localizzati sull’atomo stesso, o condivisi con quelli immediatamente adiacenti, ma sono invece delocalizzati, cioè uniformemente distribuiti tra tutti gli atomi del reticolo, in quanto in queste strutture gli atomi sono così vicini l’uno all’altro, che i loro elettroni di valenza esterni sono attratti dai nuclei dei numerosi atomi adiacenti.

Ogni atomo mette a disposizione di tutto il cristallo i propri elettroni di valenza, che nell’insieme vanno a formare una sorta di nube di carica elettronica mobile (detta anche gas di elettroni o mare di elettroni), in cui sono immersi gli atomi del reticolo.

La presenza di una nube elettronica mobile implica che il legame metallico è non direzionale, diversamente da quello covalente.

I metalli possono poi essere soggetti a una deformazione considerevole senza giungere a rottura → gli atomi metallici possono scorrere l’uno sull’altro senza distruggere completamente la struttura del legame metallico (anche se su questo punto torneremo in dettaglio).

Per il legame metallico non ci sono limitazioni relative alla presenza di coppie di elettroni come per il legame covalente o relative alla neutralità di carica come per il legame ionico*.

Difetti/imperfezioni nei solidi cristallini

I cristalli finora considerati sono cristalli ideali, ossia esenti da imperfezioni.

Nella realtà, tuttavia, la struttura cristallina perfetta non esiste, in quanto ogni cristallo presenta sempre un certo numero di difetti che influiscono, in modo talora rilevante, sulle proprietà meccaniche, elettriche e ottiche.

In generale, anche se le imperfezioni interessano una minima parte degli atomi di cui il materiale è composto, esse possono ugualmente produrre variazioni apprezzabili delle caratteristiche complessive del materiale stesso.

I difetti possono rappresentare un aspetto critico del materiale, mentre talvolta, come nel caso del drogaggio dei semiconduttori, è necessario produrli nel materiale affinché esso abbia le proprietà desiderate.

Dal punto di vista geometrico, i difetti possono essere classificati in:

  • Difetti di punto: coinvolgono un numero limitato di atomi (al limite, anche uno solo)

  • Difetti di linea: coinvolgono una linea che attraversa una porzione del reticolo, lungo cui gli atomi non sono disposti in maniera regolare

  • Difetti di superficie: un’area di dimensioni macroscopiche separa due zone di diversa periodicità

  • Difetti di massa o di volume: pori, inclusioni, cricche, seconde fasi

Difetti di punto

I difetti di punto possono essere suddivisi in:

  • difetti in metalli puri:

  • lacuna o vacanza = posizioni reticolari non occupate da nessun atomo

  • atomi interstiziali = atomi dello stesso metallo che non occupano una normale posizione reticolare

  • formazione di soluzioni solide (leghe metalliche):

  • Atomi sostituzionali = atomi di elementi diversi (soluti) che occupano normali posizioni nel reticolo del metallo ospitante. Gli atomi devono avere dimensione simile e stesso reticolo cristallino.

  • Atomi interstiziali =  atomi soluti che non occupano normali posizioni reticolari

  • difetti puntuali:

  • Generano localmente delle sollecitazioni nel reticolo, che possono essere di trazione o di compressione a seconda che ci siano atomi in eccesso o in difetto

  • Rendono possibile il meccanismo di diffusione atomica allo stato solido → favorita dall’aumento della concentrazione dei difetti e dalla mobilità degli atomi, e quindi dall’aumento della temperatura. Può considerarsi praticamente trascurabile a temperatura ambiente, mentre diventa significativa alle alte temperature.

Difetti di linea

I difetti lineari o dislocazioni sono dovuti a una disposizione irregolare dei piani reticolari e si formano facilmente sia durante la lavorazione del materiale che durante la sua cristallizzazione. Si tratta di imperfezioni di reticolo localizzate lungo una linea e perturbano localmente la simmetria del reticolo.

Le dislocazioni influenzano notevolmente le proprietà meccaniche dei metalli, giocando un ruolo fondamentale nella loro deformazione. Infatti, esse tendono a facilitare lo scorrimento tra i piani del reticolo e quindi la deformazione plastica, anche sotto l’effetto di sollecitazioni relativamente contenute.

Le dislocazioni sono di tre tipi:

  • a spigolo (edge dislocation)

  • a vite (screw dislocation)

  • miste (una combinazione delle prime due)

Dislocazione a spigolo

Una DISLOCAZIONE A SPIGOLO si crea quando uno strato supplementare di particelle (semipiano) si inserisce tra due strati adiacenti del reticolo.

Questo provoca una compressione dove è inserito il semipiano e una trazione nella parte sottostante. I piani reticolari adiacenti al cuneo non sono più dritti, ma si piegano attorno al bordo del piano terminale. Per convenzione si indica una dislocazione a spigolo positiva con una T rovesciata (⊥) e una dislocazione a spigolo negativa con una T normale (⊤).

L'ampiezza e la direzione della distorsione del reticolo si chiama vettore di Burgers. Nel caso della dislocazione a spigolo, tale vettore è perpendicolare alla direzione della linea.

Per rappresentarlo dobbiamo considerare un circuito in senso orario partendo da un atomo qualunque di un piano reticolare perpendicolare alla linea di dislocazione; da qui, contiamo un numero di nodi uguali in tutte le direzioni.

In caso di reticolo perfetto, ovvero quando la fine e l’inizio coincidono, il circuito si chiude.

Se, invece, i due nodi non coincidono, definiamo vettore di Burgers il vettore che unisce il punto iniziale con quello finale.

Dislocazione a vite

Una DISLOCAZIONE A VITE si può formare a seguito dell’applicazione verso l’alto e verso il basso di sforzi di taglio nelle regioni di un cristallo perfetto che è stato tagliato da un piano di sezione.

Il nome «dislocazione a vite» deriva dal fatto che se ci si sposta lungo la linea di dislocazione, si percorre una traiettoria elicoidale che avanza di un passo a ogni giro completo.

Gli sforzi di taglio producono una torsione, generando una regione di reticolo cristallino distorto con forma di una rampa a spirale di atomi distorti, da cui appunto il nome di dislocazione a vite.

La regione di cristallo distorto non è ben definita e interessa comunque un diametro pari a molti atomi; si crea una regione di sforzi di taglio attorno alla dislocazione a vite, nella quale viene immagazzinata energia. Inoltre, si formano due gradini, che individuano lo spostamento degli atomi.

La linea di dislocazione a vite è parallela al suo vettore di Burgers:

Il vettore di Burgers è un mezzo per caratterizzare, in un cristallo, l'orientazione e l'intensità di una dislocazione.

È perpendicolare o parallelo alla linea di dislocazione, a seconda che la dislocazione sia a spigolo o a vite, e di ampiezza pari alla più piccola distanza di spostamento degli atomi attorno alla dislocazione.

Dislocazione mista

Nella dislocazione mista la linea di dislocazione è di solo tipo a vite a sinistra, dove entra nel cristallo, e di solo tipo a spigolo a destra dove lascia il cristallo.

Effetto delle dislocazioni sulla deformazione plastica dei metalli

Una deformazione elastica è tale se il corpo è in grado di tornare alle dimensioni originarie quando non è più sottoposto al carico di trazione o di compressione.

Una deformazione plastica è tale se il carico agente sul corpo produce una deformazione irreversibile, modificando irreversibilmente le dimensioni del corpo.

Nelle prove di sforzo-deformazione il carico può essere statico o variare nel tempo, inoltre può essere applicato in tensione (trazione), compressione, taglio e torsione.

Quando applichiamo uno sforzo a un reticolo cristallino, data l’anisotropia dovuta alla sua specifica geometria, in ogni tipo di reticolo esistono dei piani preferenziali di scorrimento e delle direzioni preferenziali di scorrimento di una parte del reticolo sull’altra.

La combinazione di tali piani e direzioni determina i cosiddetti sistemi di scorrimento, specifici per ciascun tipo di reticolo. La deformazione ha luogo sui sistemi di scorrimento e provoca delle deformazioni a gradino, chiamate bande di scorrimento.

Il modello atomico più semplice per spiegare questo fenomeno, che era quello utilizzato in origine quando ancora non si ipotizzava la presenza delle dislocazioni, considera lo scorrimento di un blocco di atomi sull’altro in un cristallo metallico perfetto, ovvero privo di difetti.

Questo modello considera lo scorrimento contemporaneo di grandi quantità di atomi. Si tratta di un processo che richiede molta energia.

Perché i metalli possano deformarsi ai bassi valori di sforzo di taglio osservati, nel cristallo deve essere presente un’elevata densità di dislocazioni:

  • si formano in gran numero già durante la solidificazione del metallo

  • se ne formano molte altre di più quando il cristallo viene deformato cosicché un cristallo che ha subito un’alta deformazione

Una deformazione che avvenga per scorrimento di dislocazioni invece che per scivolamento di interi piani atomici gli uni sugli altri richiede uno sforzo relativamente basso, poiché ad ogni istante solo un piccolo numero di atomi scorre sugli altri.

In altre parole, la presenza delle dislocazioni abbassa notevolmente lo sforzo critico di taglio per la deformazione plastica dei materiali metallici, in accordo coi dati sperimentali.

Infatti, per muovere un piano cristallino rispetto all’altro è necessario rompere e riformare un numero di legami molto inferiore.

Ovviamente, il movimento delle dislocazioni con il piano di scorrimento più favorevole non può proseguire all’infinito.

Esse si arrestano quando incontrano un ostacolo che può essere costituito da:

  • un atomo diverso da quello del metallo

  • un atomo in posizione interstiziale

  • un bordo di grano (tipicamente fungono da barriera al moto delle dislocazioni)

  • un’altra dislocazione (le dislocazioni, scorrendo, possono infatti ostacolarsi a vicenda)

  • la superficie esterna del metallo

In questi casi, la deformazione plastica del metallo può comunque procedere, in quanto le dislocazioni possono superare l’ostacolo, altre dislocazioni con piani inizialmente meno favorevoli si mettono in moto oppure la dislocazione in corrispondenza dell’ostacolo genera nuove dislocazioni che possono a loro volta “aggirare” l’ostacolo.

Per deformare in modo plastico crescente un materiale metallico occorre comunque fornire sempre più energia.

Ovvero, un materiale metallico deformato a bassa temperatura (sotto la sua temperatura di ricristallizzazione) opporrà una resistenza maggiore alla deformazione plastica rispetto a quando non ha subito deformazioni plastiche, poiché il drastico aumento del numero di dislocazioni fa sì che esse si ostacolino a vicenda nel movimento → questo effetto prende il nome di INCRUDIMENTO.

In generale, dato che la capacità di un metallo a deformarsi plasticamente dipende dalla capacità di movimento delle sue dislocazioni, limitando o ostacolando il movimento delle dislocazioni si rende il materiale più duro e più resistente da duttile che era.

Difetti di superficie

Difetti di superficie si riscontrano ai bordi di grano.

Come è già stato detto, nella quasi totalità dei casi pratici i metalli non sono monocristalli, ma aggregati policristallini. I singoli cristalli, detti grani, sono orientati casualmente fra loro e si formano quando cristalli formati da nuclei diversi si incontrano. Le dimensioni e l’orientamento dei grani si determinano durante il processo di solidificazione da fuso che, nel caso dei materiali metallici, è un processo sempre necessario per ottenere il materiale di partenza per le differenti operazioni tecnologiche.

Il materiale policristallino è isotropo, in quanto i grani sono orientati casualmente.

Ai bordi di grano sono associati difetti reticolari dovuti alla vicinanza tra reticoli diversamente orientati che interferiscono. Le distorsioni reticolari sui bordi generano nel materiale una certa quantità di energia interna che rende meno stabile il materiale policristallino rispetto al monocristallo.

Relazione di Hall-Petch

La relazione di Hall-Petch (o effetto Hall-Petch) è un principio della scienza dei materiali che descrive come la resistenza meccanica di un materiale policristallino aumenti al diminuire della dimensione media dei suoi grani cristallini.

Principio fondamentale

  • Nei materiali policristallini, i bordi di grano agiscono come barriere al movimento delle dislocazioni, che sono le principali responsabili della deformazione plastica.

  • Grani più piccoli significano un maggior numero di confini di grano, che ostacolano più efficacemente la propagazione delle dislocazioni.

  • Questo porta a un aumento della resistenza allo snervamento e quindi della durezza e forza del materiale.

Implicazioni e dettagli

  • La resistenza aumenta all’aumentare del numero di confini di grano

  • Per dimensioni di grano molto piccole (nanoscala, sotto circa 10 nm), si osserva spesso un fenomeno inverso, chiamato effetto inverso di Hall-Petch, dove la resistenza diminuisce al ridursi ulteriormente della dimensione del grano.

Significato pratico

  • La raffinazione del grano è una tecnica efficace per aumentare la resistenza e la durezza dei metalli e delle leghe senza compromettere troppo la duttilità.

  • È utilizzata in processi di lavorazione come la laminazione a freddo, la tempra e il trattamento termico controllato per migliorare le proprietà meccaniche.

  • La relazione aiuta a progettare materiali con prestazioni ottimali bilanciando dimensione del grano, resistenza e duttilità.

Test a trazione

Al provino viene applicato un carico F.

Un estensimetro viene usato per misurare l’allungamento sotto carico.

Vengono definite le seguenti quantità:

  • sforzo ingegneristico

  • deformazione ingegneristica

dove è la sezione iniziale del provino, la lunghezza iniziale (compresa tra i due punti di misura dell’estensimetro), l la lunghezza sotto carico.

Dal test a trazione si possono ricavare informazioni riguardanti la resistenza, la rigidezza e la duttilità di un materiale.

Carico o resistenza di snervamento (yield strenght) a una deformazione dello 0.2%. Rappresenta la sollecitazione al di sopra della quale il materiale manifesta una deformazione plastica permanente residua dello 0.2%. Poiché non vi è, in genere, un punto ben definito in cui finisce al deformazione elastica e inizia quella plastica, la deformazione dello 0.2% è scelta arbitrariamente. Nei metalli è lo sforzo al quale si ha scorrimento (dislocazioni). A volte si può avere un doppio punto di snervamento.

Carico di rottura (o resistenza a trazione, tensile strenght)

È lo stress corrispondente al picco di forza applicato, ossia lo stress massimo della curva sforzi- deformazioni ingegneristiche. In molti materiali duttili la deformazione non rimane costante in tutto il provino: una regione si deforma più delle altre, con una marcata riduzione della sezione trasversale (strizione o necking).

Siccome la sezione è ridotta, è necessaria una forza più piccola per causare una deformazione: di conseguenza lo stress ingegneristico, che è riferito alla sezione iniziale, decresce.

La resistenza a trazione è lo stress in corrispondenza del quale comincia il fenomeno di necking nei materiali duttili.

Modulo di elasticità o modulo di Young (si misura in GPa)

Si ricava dall’analisi della prima parte del diagramma sforzo-deformazione, in cui il materiale manifesta un comportamento elastico (le deformazioni sono cioè reversibili, per cui se si riporta a zero il carico non si hanno deformazioni residue del provino) e c’è una relazione lineare tra sforzo e deformazione.

Il modulo di elasticità è la pendenza della curva sforzi-deformazioni.

Il modulo è una misura della rigidezza del materiale. Un materiale rigido, ovvero con un  modulo di Young alto, tende maggiormente a mantenere sotto carico la sua forma e dimensione.

Durante la fase elastica, il modulo non cambia aumentando la sollecitazione. Per i metalli la massima deformazione elastica è di solito minore dello 0.5%.

Metodi di misure: da curva sforzi deformazioni, misura della velocità delle onde longitudinali che si muovono nel materiale a densità .

Modulo di resilienza (

É l’area contenuta al di sotto del ramo elastico della curva sforzi-deformazioni, ovvero dà un’indicazione dell’energia elastica assorbita dal materiale durante il carico e successivamente rilasciata durante lo scarico.

Modulo (o coefficiente) di Poisson

Uno sforzo di trazione origina una deformazione assiale e le contrazioni laterali . Se il materiale è isotropo, sono uguali. Il rapporto:

È il modulo di Poisson. Per materiali ideali dovrebbe essere ; nei materiali reali è tipicamente compreso tra 0.25 e 0.4, con un valore medio intorno a 0.3.

Leghe metalliche

Nella maggior parte dei casi i metalli non vengono impiegati allo stato puro, ma in miscela con altri elementi, sia metallici che non metallici, a formare delle leghe.

La presenza anche di piccole quantità di elementi estranei in un metallo base, determina variazioni rilevanti nelle proprietà del materiale.

Le leghe presentano spesso caratteristiche migliori rispetto a quelle dei metalli puri, ad esempio in termini di proprietà meccaniche o resistenza alla corrosione, un fattore cruciale in ambito biomedicale.

Si definisce lega una miscela mono-fasica o poli-fasica composta da due o più elementi, di cui almeno uno metallico, chiamato metallo base. Un tipico esempio di elemento non metallico che si può trovare nelle leghe è il carbonio (acciaio e ghisa, come vedremo).

La composizione di una lega può variare parecchio, a differenza di quanto accade coi composti chimici ionici o covalenti, dove il rapporto fra le quantità dei costituenti è tipicamente fisso e definito; nelle leghe invece, in virtù del legame metallico, i costituenti possono essere combinati secondo rapporti differenti.

Le proprietà delle leghe dipendono dalla natura degli atomi costituenti, dall’energia di legame dei diversi elementi, dalla geometria del reticolo cristallino nel quale si organizzano e dalla temperatura.

Le leghe metalliche vengono tipicamente prodotte tramite due procedure:

1) la fusione degli elementi costituenti, seguita da raffreddamento e cristallizzazione del fuso;

2) la sinterizzazione degli elementi costituenti in polvere, che vengono prima miscelati con cura poi collocati in uno stampo ed esposti a pressioni e temperature molto elevate, ma inferiore alla temperatura di fusione dei materiali. I grani di polvere si saldano tra loro per diffusione atomica tra i grani stessi grazie all’energia fornita col calore, coadiuvati dalla pressione che li mantiene a stretto contatto durante tutto il processo.

La sinterizzazione si utilizza in particolare quando gli elementi costituenti fondono a temperature elevate, pertanto produrre i manufatti per fusione sarebbe dispendioso e complicato; si usa anche con altri materiali, come i ceramici e i cermet (materiali derivanti dall'unione di un materiale metallico con una sostanza di natura ceramica).

In genere, il prodotto ottenuto è più granuloso e fragile rispetto ad un pezzo realizzato per fusione.

Diagrammi di fase

Definiamo fase una porzione di materiale omogenea, sia dal punto di vista strutturale che della composizione chimica. Pertanto, in una lega ogni fase ha una certa composizione chimica e/o una specifica struttura. In genere le fasi sono vere e proprie soluzioni solide con reticoli cristallini diversi da quelli dei componenti puri di partenza.

Le soluzioni solide si formano quando gli atomi di due o più elementi vanno a occupare, in diverse proporzioni, i siti di un reticolo cristallino, costruendo pertanto un’unica fase. Il soluto può incorporarsi nel reticolo cristallino del solvente (cioè il metallo base) sostituzionalmente, sostituendo una particella del solvente nel reticolo, oppure interstizialmente, inserendosi nello spazio tra le particelle del solvente.

Entrambi questi tipi di soluzione solida influiscono sulle proprietà del materiale distorcendo il reticolo cristallino e perturbando l'omogeneità fisica ed elettrica del materiale solvente. Alcune miscele possono formare rapidamente soluzioni solide lungo un intervallo di concentrazioni, mentre altre miscele non ne formeranno affatto.

La propensione di due sostanze qualsiasi a formare una soluzione solida è un argomento complesso che coinvolge le proprietà chimiche e cristallografiche degli elementi in questione.

Un lega si dice monofasica se è costituita da un’unica soluzione solida; al contrario, è definita polifasica se è presente un miscuglio di soluzioni solide.

Le proprietà delle leghe sono descritte ai diagrammi di stato o di fase.

Si tratta di rappresentazioni grafiche delle pressioni, temperature e composizioni alle quali le diverse fasi sono stabili in condizioni di equilibrio (un sistema è in equilibrio se non avvengono variazioni macroscopiche nel tempo). Nella scienza dei materiali i diagrammi di stato più comuni sono tracciati in funzione della temperatura e della composizione.

L’esempio più semplice di diagramma di fase binario è quello di una lega di due metalli che forma una soluzione solida a tutte le concentrazioni relative delle due specie.

In questo caso, la fase pura di ciascun elemento ha la stessa struttura, e le proprietà simili dei due elementi consentono una sostituzione non distorta attraverso l'intero intervallo delle concentrazioni relative.

Il diagramma di fase binario riportato sotto, invece, mostra le fasi di una miscela di due sostanze in concentrazioni variabili, A e B, completamente miscibili allo stato fuso, ma non a bassa temperatura.

Al variare della temperatura cambia l’area in cui le fasi sono presenti, se variamo la concentrazione di A e B e vogliamo rimanere allo stato solido vediamo che all’aumentare di B in A diminuisce la temperatura a cui abbiamo la sola fase solida (quindi il 100% di A ha una temperatura di fusione maggiore rispetto a quello che avviene nella lega).

Un esame della microstruttura rivelerebbe due fasi; la soluzione solida A-in-B e la soluzione solida B-in-A formerebbero fasi distinte, forse sotto forma di lamelle o di grani (una lega polifasica con grani di solido α e grani di solido β).

detta temperatura eutettica ed è caratteristica di una lega con una data composizione, chiamata composizione eutettica.

La temperatura e la composizione eutettica individuano nel grafico un punto E, detto punto eutettico; nel punto eutettico la lega fonde a temperatura costante comportandosi come un metallo puro.

I diagrammi di fase delle leghe impiegate nel biomedicale, che poi discuteremo nel dettaglio, possono essere anche molto complicati, visto che nella lega sono presenti di norma più di due componenti.

La corrosione

La biocompatibilità dei metalli è funzione, innanzi tutto, della loro capacità di resistere all’aggressione dei fluidi biologici, che hanno un elevato potere corrosivo nei confronti di questi materiali.

La corrosione costituisce il principale problema legato all’uso dei metalli come biomateriali e deve essere evitata o almeno limitata (l’altro problema, come vedremo, sono le proprietà meccaniche e la densità dello specifico metallo).

Durante la corrosione avviene il rilascio di ioni metallici con due possibili conseguenze:

1) la perdita di spessore e quindi di funzionalità dell’impianto, dovuta al peggioramento delle sue proprietà meccaniche;

2) la contaminazione sia dei tessuti circostanti che dell’intero organismo con ioni metallici spesso tossici, che possono provocare danni anche gravi per la salute del paziente (allergia, infiammazione, metallosi)

Storicamente, l’unico materiale metallico impiegato nel corpo umano proprio in virtù della sua inerzia chimica è stato l’oro. L’uso di questo materiale, tuttavia, si è limitato alle protesi dentarie.

Al di là del suo costo, infatti, l’oro non ha le necessarie proprietà meccaniche per poter essere applicabile come protesi o mezzo di osteosintesi.

Tutti gli altri metalli che consideriamo resistenti alla corrosione devono il loro comportamento alla formazione in superficie di un film passivante, cioè una sottile pellicola protettiva che aderisce perfettamente alla parte della superficie del pezzo a contatto con l'ambiente aggressivo e ostacola la diffusione dell'agente ossidante.

La corrosione può essere definita come il processo in base al quale un metallo tende a degradarsi, passando dallo stato elementare allo stato di materiale ossidato, a seguito di attacco da parte dell’ambiente in cui si trova.

La maggior parte dei fenomeni corrosivi nei metalli avviene a seguito di un attacco di tipo elettrochimico, in cui sono coinvolti gli elettroni liberi presenti negli strati più esterni del reticolo cristallino, e che avviene in soluzioni acquose o in ambiente atmosferico (corrosione a umido).

La corrosione dei metalli può essere vista come il processo opposto alla metallurgia estrattiva. Infatti, la maggior parte dei metalli sono presenti in natura sotto forma di composti – ossidi, solfati, carbonati, etc.; l’energia degli elementi metallici in questi stati combinati è inferiore rispetto a quella del corrispondente metallo allo stato puro, pertanto vi è una tendenza spontanea a reagire chimicamente per formare i composti citati.

Durante il processo metallurgico estrattivo, gli ossidi di ferro presenti in natura vengono ridotti a ferro, che si trova in uno stato energetico più alto, fornendo energia termica.

Con la corrosione il ferro metallico tende a riportarsi al suo stato energetico originario, caratterizzato da energia minore, trasformandosi nuovamente e in modo del tutto spontaneo nell’ossido di partenza.

Alla base della corrosione, vi è sempre un processo di ossidazione del metallo, cioè di perdita di elettroni. L’origine del fenomeno può essere di natura:

  • Chimica: in questo caso, la superficie del metallo interagisce con specie chimiche reattive presenti nell’atmosfera;

  • Elettrolitica: entrano in gioco correnti elettriche che provocano processi elettrochimici dove l’acqua e i sali in essa disciolti fungono da elettrolita, mentre le parti metalliche da elettrodi. Nei processi di corrosione di natura elettrochimica, cioè di fatto quelli che coinvolgono i metalli una volta impiantati nel corpo umano (corrosione a umido), la forza motrice è dovuta all’azione combinata dell’acqua e dell’ossigeno.

Infatti, questi processi non avvengono se una delle due specie chimiche è assente, come nel caso di un metallo immerso in acqua totalmente disareata o esposto all’ossigeno in un ambiente completamente privo di umidità.

Processi elettrochimici che regolano la corrosione

Il meccanismo elettrochimico che porta alla corrosione di un metallo è il risultato di due reazioni complementari:

  1. Una reazione di ossidazione, detta anodica, che implica appunto l’ossidazione del metallo e produce ioni metallici (cationi) che passano in soluzione acquosa. La zona sulla superficie del metallo dove ha luogo tale reazione è detto anodo. Durante la reazione anodica vengono liberati degli elettroni. L’equazione per la reazione coinvolta è:

 

Nel caso del ferro avremo:

  1. Una reazione di riduzione, o reazione catodica, nella quale gli elettroni liberati nella reazione di ossidazione vengono acquisiti da una delle specie presenti nell’ambiente, che così si riduce. La superficie metallica dove ha luogo tale reazione è detta catodo.

Nel caso di nostro interesse – soluzione acquosa areata – la specie che si riduce di solito è l’ossigeno, secondo la reazione:

Nel caso di un ambiente acquoso acido, privo di ossigeno, è lo ione idrogeno che si riduce, liberando idrogeno gassoso secondo la reazione:

Le reazioni di ossidazione e riduzione devono essere contemporanee e avvenire alla stessa velocità per evitare l’accumulo di cariche elettriche nel metallo.

Durante la corrosione c’è dunque un passaggio di corrente, dovuto al passaggio di elettroni prodotti all’anodo e consumati al catodo.

Nel complesso, la corrosione del ferro in ambiente acquoso con formazione di ruggine, che si distacca dal metallo, è descritta dalle seguenti reazioni:

L’idrossido ferroso, , precipita perché questo composto è insolubile in soluzioni acquose contenenti ossigeno. Esso viene ulteriormente ossidato a idrossido ferrico, , che ha il colore rosso-bruno della ruggine.

La reazione per l’ossidazione da idrossido ferroso a ferrico è:

Che poi diventa ferro idrato:

Normalmente le aree anodiche e catodiche sono frammiste e in continuo scambio, pertanto si ha passaggio di corrente solo a livello microscopico, ma non macroscopico.

Queste relazioni avvengono all’interfaccia metallo-soluzione acquosa, zona nella quale esse possono comportare modificazioni sensibili dell'ambiente acquoso.

Bisogna specificare che, affinché un processo di corrosione possa avvenire, occorrono precise condizioni termodinamiche.

La tendenza alla corrosione di un metallo può essere definita considerando il suo potenziale elettrochimico, che viene misurato in una pila in cui:

  • un elettrodo è costituito dal metallo stesso immerso in una soluzione 1M dei suoi ioni a 25 °C;

  • mentre l’altro elettrodo è un elettrodo standard a idrogeno, il cui potenziale elettrochimico è convenzionalmente posto uguale a zero.

In generale, la corrosione avviene se il potenziale del processo catodico è superiore al potenziale di quello anodico .

In questa pila standard, la condizione necessaria perché il metallo si ossidi e l’idrogeno si riduca è che il potenziale standard del metallo sia minore di zero.

Nel caso di un metallo impiantato nel corpo umano, il suo potenziale standard che indicheremo con (processo anodico) andrà confrontato non con quello dell’elettrodo standard a idrogeno, ma con quello delle possibili reazioni catodiche che si possono verificare, il cui valore dipende dal pH.

Perché il metallo si corroda, è ancora necessario che:

I fluidi all’interno del corpo umano sono quasi sempre ossigenati e, nonostante il pH sia variabile da distretto a distretto, in generale è pressoché neutro, se escludiamo il contenuto gastrico o l’urina. Si può concludere che, nel corpo umano (presenza di ossigeno, pH neutro), si possono corrodere i metalli con potenziale inferiore a quello del platino.

Tipologie di corrosione

  • Corrosione generalizzata: si tratta della forma più comune di corrosione: senza una protezione specifica, tutti i metalli sono normalmente soggetti a questo tipo di corrosione. È dovuta alle differenze di potenziale locali che si creano tra zone diverse di uno stesso metallo immerso in un elettrolita. In pratica, alcune zone della superficie diventano anodiche rispetto ad altre. Dato che queste zone cambiano continuamente posizione, la corrosione investe tutta la superficie del metallo.

  • Corrosione galvanica o bimetallica: si verifica quando due metalli con diversi potenziali elettrochimici sono posti a contatto elettrico fra loro: il più negativo della serie elettrochimica si comporterà da anodo e verrà corroso, mentre l’altro si comporta da catodo. Si forma così una pila nella quale l’elettrolita è costituito dall’ossigeno e dall’umidità dell’aria.

I due metalli possono essere due pezzi distinti, ma anche un componente che contenga impurezze di metalli più nobili; si consideri che lo stesso metallo può presentare minore potenziale elettrochimico se ha subito deformazioni plastiche durante la lavorazione o trattamenti termici non corretti. In genere, è buona norma evitare contatti tra metalli diversi, soprattutto evitare che uno dei due metalli sia l’acciaio inox. Infatti:

  • Lega di cobalto/lega di titanio = non producono effetti corrosivi significativi

  • Lega di cobalto o titanio/carbonio = non producono effetti corrosivi significativi

  • Acciaio inox/carbono = aumenta la corrosione dell’acciaio inox

  • Acciaio inox/lega di cobalto = aumenta la corrosione dell’acciaio inox

  • Corrosione in fessura o interstiziale: si verifica quando sul componente metallico sono presenti irregolarità, microcrepe o fessure tra parti adiacenti di un dispositivo impiantato. In genere, questo tipo di corrosione avviene al di sotto di superfici schermate, dove possono esserci soluzioni stagnanti (sotto guarnizioni, chiodi e bulloni). Più le fessure sono strette e profonde, più è probabile che si inneschi il processo. Infatti, perché avvenga questo tipo di corrosione, la fessura deve essere abbastanza grande da lasciare entrare il liquido, ma sufficientemente stretta da farlo ristagnare.

Inizialmente, lungo tutta la superficie interna della fessura si ha la dissoluzione del metallo per ossidazione e la contemporanea riduzione dell’ossigeno. A mano a mano che l’ossigeno nella fessura si consuma, il processo catodico e la relativa corrosione del metallo si propaga verso l’esterno.

Visto che la soluzione nella fessura è stagnante, l’ossigeno consumato non viene rimpiazzato, mentre la reazione anodica continua ad avvenire.

L’elevata concentrazione di ioni metallici all’interno della fessura, unita alla diminuzione dell’ossigeno che diffonde a fatica all’interno della crepa, richiama ioni negativi dai fluidi per bilanciare le cariche positive. In genere, in ambiente biologico gli ioni negativi sono ioni cloro. Si forma così cloruro metallico che poi dà luogo a idrossido metallico insolubile e acido libero.

La diminuzione di pH accelera ulteriormente la corrosione del metallo all’interno della fessura.

I dispositivi biomedicali da impianto costituiti dall’assemblaggio di più componenti sono ad alto rischio di corrosione in fessura → nelle viti di fissaggio e nelle placche di osteosintesi la corrosione colpisce il 50-75% dei componenti metallici.

Mentre la corrosione in fessura non si presenta in misura significativa nelle leghe di titanio, è frequente nell’acciaio inox e nelle leghe di cobalto, anche se in quest’ultimo caso in misura più modesta.

  • Corrosione per vaiolatura (pitting) =  caso speciale di corrosione in fessura quando il metallo è esposto ad ambienti contenenti ioni alogenuro, in particolare cloruri e tipicamente acqua marina. Avviene all’interno di irregolarità superficiali del metallo costituite da cavità di dimensioni molto piccole (tra 100 e 200 µm) dette vaiolature (pit), che con l’avanzare del processo di corrosione, possono crescere e scavare fino a perforare completamente il componente metallico.

Il rischio aumenta in presenza di fenomeni di fatica che innescano cricche in corrispondenza della cavità. L’attacco vaiolante è quindi estremamente pericoloso e, a causa della sua natura localizzata, può essere causa di rotture improvvise.

L’area catodica (superficie del metallo) è molto più grande di quella anodica (fondo pareti della vaiolatura), cosa che spiega l’alto potere penetrante di questo fenomeno (molto più elevato, ad esempio della velocità della corrosione generalizzata).

Le vaiolature si innescano dove si hanno aumenti locali della velocità di corrosione, a causa di inclusioni o altre eterogeneità strutturali e di composizione alla superficie del metallo.

In campo biomedicale, questo tipo di corrosione si osserva su impianti in acciaio inox privi di molibdeno, è incerto se possa avvenire su leghe di cobalto e risulta estremamente raro su quelle di titanio.

  • Corrosione sotto sforzo = si verifica quando un metallo è sottoposto a sforzi di trazione che innescano cricche superficiali. Si tratta quindi di una forma di corrosione localizzata e con alta velocità di penetrazione. Le cricche si propagano in direzione perpendicolare allo sforzo e possono portare a rottura il pezzo anche per sforzi molto inferiori a quelli di rottura in assenza di corrosione.

Proteggere i metalli dalla corrosione: la passivazione

In relazione alla corrosione, per passivazione di un metallo si intende la formazione di uno strato superficiale protettivo di prodotti di reazione, che inibisce l’ulteriore svolgimento della reazione stessa, aumentando la resistenza della connessione elettrica fra anodo e catodo.

In pratica, sul metallo si forma una pellicola protettiva di prodotti di reazione, detto film di passività, che di fatto rende il materiale molto resistente alla corrosione in ambienti da moderatamente a fortemente ossidanti.

Nella teoria del film di ossido, si ritiene che il film di passività sia uno strato di barriera di prodotti di reazione, ad esempio ossidi del metallo in questione o altri composti, che separa il metallo dall’ambiente e rallenta la velocità di reazione. Poiché l’ossido è un materiale ceramico, esso possiede un’elevata resistività elettrica, pertanto il passaggio di corrente diminuisce e si riduce la velocità di corrosione.

Il grado di protezione che uno strato di ossido offre al metallo dipende da molti fattori, tra cui la sua compattezza, la capacità di aderire più o meno bene al metallo (il film non deve tendere a rompersi o distaccarsi), la sua conducibilità che dovrebbe essere bassa e gli altrettanto bassi coefficienti di diffusione nei confronti degli ioni metallici e dell’ossigeno.

Tra i metalli e leghe che mostrano comportamento passivo, citiamo gli acciai inossidabili, il titanio e l’alluminio e molte delle loro leghe, il nichel e molte leghe di nichel.

Anche gli acciai inossidabili possono arrugginire. Infatti, questi metalli devono la loro resistenza alla corrosione al sottile strato di ossido di cromo che si forma sulla loro superficie e impedisce all'ossigeno e all'umidità di penetrare e causare la ruggine. Quando tale strato viene danneggiato (da graffi, tagli, abrasioni) può generalmente riformarsi.

Tuttavia, se le condizioni ambientali sono troppo aggressive (in particolare, elevata concentrazione di cloruri che possono bucare il film e innescare vaiolatura), anche l'acciaio può esporre il ferro sottostante, che può arrugginire.

Un dispositivo che appare danneggiato in più punti, causa due conseguenze preoccupanti:

1) L’impianto perde la propria funzionalità, esponendo l’osso a rischio di fratture

2) Vengono rilasciati dei metalli che possono causare importanti reazioni da parte dell’organismo a livello locale e sistemico

Osso spugnoso e osso compatto

L'osso è un tessuto connettivo specializzato con una matrice extracellulare mineralizzata che fornisce supporto, forma e rigidità allo scheletro umano.

L'architettura dell'osso è tale che la sua zona più esterna, detta osso corticale, è piuttosto compatta, per garantire adeguate proprietà meccaniche.

Le funzioni metaboliche dell'osso sono controllate dall'osso spongioso, trabecolare o spugnoso situato centralmente. L’osso trabecolare è altamente poroso.

L'osso è composto dal 65-70% in peso di sali minerali, principalmente sotto forma di idrossiapatite, mentre il restante 30-35% è composto da matrice organica, formata per lo più da collagene.

L’osso è quindi un materiale composito.

Mentre l’idrossiapatite conferisce all’osso durezza e rigidità, il collagene gli conferisce elasticità.

Biometalli: applicazioni e proprietà

Applicazioni principali:

  • Ortopedia, per la realizzazione di protesi e mezzi di osteosintesi.

Le protesi, definite come impianti di tipo permanente, sono destinate a sostituire la struttura ossea in funzioni legate soprattutto alla deambulazione. I mezzi di osteosintesi, destinati ad essere in genere rimossi al termine della loro funzione (dopo circa 6-12 mesi), sono utilizzati in primo luogo per coadiuvare la riparazione di fratture ossee o per correggere difetti scheletrici;

  • Odontoiatria, per la realizzazione di impianti dentali osteointegrati, arcate di protesi odontoiatriche e fili ortodontici;

  • In campo cardiovascolare, per la realizzazione di supporti di valvole cardiache, involucri di pacemakers, filtri per vena cava e stent;

  • Protesi esterne;

Proprietà

  • Biocompatibilità di un metallo: è definita come stabilità chimica, resistenza alla corrosione, non carcinogenità e non tossicità quando utilizzato nel corpo umano;

  • Buona duttilità, col materiale che non si rompe di schianto come avviene tipicamente per quelli fragili (ceramici), ma si deforma plasticamente prima di cedere. Questo fenomeno funge da avvisaglia e permette di sostituire il componente deformato prima che si rompa;

  • Elevato carico di snervamento, che rende possibile produrre dispositivi in grado di sopportare carichi elevati senza grandi deformazioni elastiche o plastiche permanenti;

  • Elevata resistenza alla fatica meccanica e buona resistenza all’usura, che li rende idonei per applicazioni che prevedono cicli di carico/scarico;

  • I dispositivi possono essere prodotti con tecnologie tradizionali e la loro superficie può essere rifinita con cura e opportunamente trattata per migliorare la biocompatibilità, che è strettamente correlata al fenomeno della corrosione (ad esempio, applicando sul metallo un opportuno rivestimento);

  • Facili da sterilizzare;

  • Gran parte delle criticità riportate sono relative ai dispositivi e alle protesi impiantabili. Nel caso dell’impiego per realizzare ferri chirurgici, i metalli presentano inconvenienti minori e sono i materiali più impiegati da sempre.

Stress shielding: un’importante problematica relativa all’applicazione ortopedica dei metalli

Il modulo di elasticità (o di Young) di un metallo è una misura della sua resistenza alla deformazione elastica, ossia è indice della sua rigidezza.

I metalli, tipicamente, hanno un modulo elastico tra i 100 e i 250 GPa, un valore molto elevato rispetto a quello dell’osso compatto, che è attorno ai 17 GPa (misurato nella direzione di applicazione del carico). Un modulo elastico così elevato costituisce una criticità.

Nonostante, da un punto di vista ingegneristico, lo stress shielding possa sembrare una condizione desiderabile – il metallo è più resistente dell’osso – da un punto di vista biologico può essere deleterio. Infatti, il tessuto osseo risponde allo sforzo rimodellandosi, cioè ricostruendosi, in funzione del livello di sforzo applicato. Così, a causa dello stress shielding l’osso si rimodella a un livello di carico inferiore e la sua qualità si deteriora.

In sintesi, se le differenze in termini di rigidezza tra osso e impianto sono troppo marcate, LO STRESS SHIELDING CAUSA UNA RIDUZIONE DELLA DENSITÀ OSSEA come risultato della rimozione dello stress fisiologico dall'osso da parte dell’impianto (un altro esempio è il componente femorale di una protesi dell'anca). Se il carico sull’osso diminuisce, l'osso diventerà meno denso e più debole, perché manca lo stimolo per quel continuo rimodellamento che mantiene la massa ossea.

Insieme all'atrofia ossea, nell'osso possono poi svilupparsi sollecitazioni eccessivamente elevate nelle regioni in cui il carico viene trasferito dall'impianto all'osso ospite. Anche questo fenomeno può danneggiare l’osso.

È anche per questa ragione, come vedremo, che in applicazioni di questo tipo sono preferibili le leghe al titanio, che presentano un modulo di elasticità minore rispetto alle principali leghe metalliche.

Ferro

Esistono tre forme allotropiche del ferro:

  • Ferro = con reticolo cubico a corpo centrato (CCC), stabile sotto i 910 °C; si tratta cioè della forma stabile a temperatura ambiente

  • Ferro = con reticolo cubico a facce centrate (CFC), stabile tra i 910 °C e 1394 °C

  • Ferro = con reticolo cubico a corpo centrato (CCC) ma parametri di reticolo diversi rispetto al ferro α, stabile da 1394 °C a 1538 °C, temperatura di fusione del ferro.

L'allotropia è una caratteristica che indica la proprietà di alcune sostanze chimiche di esistere in diverse forme, i cui atomi appartengono ad uno stesso elemento chimico ma si organizzano in diverse strutture cristalline. Le diverse forme sono note come allotropi.

Le soluzioni solide interstiziali del carbonio nel ferro assumono nomi differenti a seconda della forma allotropica del ferro in cui il carbonio è solubilizzato:

  • ferrite alfa: carbonio in ferro alfa – può tenere disciolte solo piccolissime quantità di carbonio (meno dello 0.043%);

  • austenite: carbonio in ferro gamma – contiene più carbonio, fino a circa il 2%: infatti, la cella CFC del ferro γ permette l’inserimento del carbonio nell’interstizio posto al centro;

  • ferrite delta: carbonio in ferro delta

Acciai inossidabili

Gli acciai al carbonio sono sostanzialmente leghe di ferro e carbonio che contengono da una percentuale molto bassa (circa lo 0.03%) all’1.2% di carbonio, anche se la maggior parte degli acciai contengono una quantità di carbonio inferiore allo 0.5%. Inoltre, è tipicamente presente dallo 0.25 all’1% di manganese, insieme a quantità minori di altri elementi.

Il tenore di carbonio controlla la formazione di carburi, che attribuiscono alla lega buone proprietà meccaniche ma sono soggetti a corrosione in ambiente biologico.

Gli acciai inossidabili devono la loro resistenza alla corrosione alla presenza di un alto contenuto di cromo (superiore al 12%). Infatti, il cromo forma un film di ossido (Cr₂O₃) superficiale che protegge dalla corrosione la lega sottostante. Questo strato di ossido di cromo è estremamente sottile, invisibile a occhio nudo, ma è molto aderente e compatto. Serve come una barriera protettiva che impedisce ulteriori reazioni tra l'ossigeno e il ferro contenuto nell'acciaio.

Perché si formi l’ossido protettivo, l’acciaio inossidabile deve essere esposto ad ambienti ossidanti (l’aria dell’atmosfera è sufficiente, anche se il processo di passivazione naturale è più lento e meno efficace di quello indotto artificialmente con altri metodi).

Il materiale è autocicatrizzante: in caso di graffi o danneggiamenti sulla superficie della lega, lo strato di ossido può riformarsi spontaneamente, a condizione che sia presente abbastanza cromo e che l'ambiente abbia ossigeno.

Un altro elemento in lega è di solito il molibdeno, che riduce la corrosione dell’acciaio anche se in misura inferiore del cromo, specialmente in ambienti più aggressivi come quelli contenenti cloruri (ad esempio, acqua di mare). Il tenore del molibdeno è modesto, dato che questo metallo è costoso e indurisce molto la lega, rendendola difficile da lavorare.

Principali microstrutture dell'acciaio

  • Ferrite: è una fase costituita da ferro α con struttura cubica a corpo centrato (CCC) e basso contenuto di carbonio (solubilità molto bassa). La ferrite conferisce all'acciaio elevata duttilità e buona formabilità, ma ha bassa durezza e resistenza meccanica. Si trova tipicamente negli acciai a basso tenore di carbonio o come matrice in acciai più complessi.

  • Austenite: fase con struttura cubica a facce centrate (CFC), stabile ad alte temperature (tra circa 723 °C e 912 °C) e capace di dissolvere più carbonio rispetto alla ferrite. L'austenite è non magnetica e più duttile rispetto alla ferrite. In alcuni acciai inossidabili, è stabile anche a temperatura ambiente.

  • Martensite: si forma tramite rapido raffreddamento (tempra) dell'austenite, con trasformazione diffusione-less che porta a una struttura tetragonale a corpo centrato (TCC). La martensite è molto dura e resistente, ma fragile, ed è responsabile delle elevate prestazioni meccaniche degli acciai temprati.

  • Perlite: microstruttura lamellare costituita da strati alternati di ferrite e cementite (Fe₃C), si forma durante il raffreddamento lento dell'austenite. Offre un buon equilibrio tra durezza e duttilità.

  • Bainite: microstruttura intermedia tra perlite e martensite, con una morfologia aciculare o a pettine, che conferisce buona resistenza e tenacità. Può essere superiore o inferiore a seconda delle condizioni di formazione.

  • Cementite: composto chimico Fe₃C, duro e fragile, presente come fase secondaria in molte microstrutture, soprattutto in perlite e bainite.

  • Microstruttura duplex: combina ferrite e austenite in proporzioni variabili, offrendo un compromesso tra resistenza meccanica e resistenza alla corrosione.

In base alla loro microstruttura, gli acciai inox si suddividono in:

  • Ferritici, costituiti da ferrite alfa a cella CCC e cromo tra il 12 e il 30%;

  • Martensitici, che contengono la fase solida chiamata martensite. L’acciaio inox martensitico, duro e tenace, ha le migliori caratteristiche meccaniche e risulta pertanto indicato per la fabbricazione di strumenti chirurgici, soprattutto lame per bisturi ed altri strumenti da taglio, a contatto temporaneo coi tessuti.

  • Austenitici, costituiti da austenite e contenenti oltre al cromo anche il nichel, con aggiunta di molibdeno. La lega tipo contiene il 18% di cromo e l’8% di nichel. Gli acciai inossidabili austenitici di norma hanno una resistenza alla corrosione migliore di quella degli acciai ferritici e martensitici, quindi sono i più indicati per la produzione di dispositivi impiantabili e mezzi di osteosintesi.

Con acciai inossidabili austenitici sono a tutt’oggi realizzati la maggior parte dei componenti metallici utilizzati in ortopedia ed in particolare quelli destinati all’impiego temporaneo (appunto, i mezzi di osteosintesi).

I principali vantaggi di questa lega comprendono il basso costo, le buone proprietà meccaniche, la facilità di lavorazione e la già citata resistenza alla corrosione.

I principali limiti sono la presenza di nichel, un elemento che può dare luogo nei pazienti a fenomeni di reazione allergica, e la suscettibilità nel corpo umano a fenomeni di corrosione in fessura, soprattutto nelle varianti a basso tenore di molibdeno e azoto.

Tra gli acciai inossidabili austenitici per la produzione di impianti, spiccano l’F55 (questo non austenitico puro) e l’F138, che equivalgono all’acciaio inossidabile più usato e noto come 316L o “acciaio chirurgico”. Questo acciaio ha meno dello 0,03% (in peso %) di carbonio (la "L" nella designazione 316L indica un basso contenuto di carbonio).

La lega 316L è prevalentemente ferro (60-65%) con significative aggiunte di cromo (17-20%) e nichel (13-16%), oltre a quantità minori di molibdeno, manganese e rame.

Leghe a base di cobalto

Le leghe a base di cobalto sono state usate per decenni per protesi dentali, mentre il loro impiego in protesi sottoposte a carichi elevati, come quelle dell’anca e del ginocchio, è più recente. In genere hanno elevate proprietà meccaniche e un’ottima resistenza alla corrosione.

Appartengono principalmente a due categorie:

  • le leghe Co-Cr-Mo, solitamente impiegate per ottenere pezzi per fusione;

  • le leghe Co-Ni-Cr-Mo, solitamente usate per forgiature a caldo, molto più costose

La forgiatura a caldo è un processo di lavorazione dei metalli in cui il materiale viene riscaldato a temperature elevate e poi modellato mediante l'applicazione di una forza meccanica.

Questo processo è utilizzato per modificare la forma del metallo e migliorare le sue proprietà meccaniche.

Le leghe a base di cobalto contengono un alto tenore di cromo che, come per gli acciai inossidabili, promuove la resistenza a corrosione tramite la formazione di un film di passività. La resistenza a corrosione a lungo termine di queste leghe è molto superiore a quella dell’acciaio inossidabile, con un rilascio di una minore quantità di ioni tossici per il corpo umano (cobalto). In genere, rilasciano ioni nichel a una velocità poco superiore a quella degli acciai 316L, pur contenendone una quantità tre volte maggiore. Pertanto, le leghe cobalto-cromo sono generalmente ritenute più biocompatibili degli acciai inossidabili.

Il molibdeno è tipicamente aggiunto per ridurre le dimensioni dei grani e aumentare le proprietà meccaniche dopo la fusione o le altre lavorazioni per deformazione plastica.

Le leghe più usate sono:

  • Co-Cr-Mo (ASTM F75)

  • Co-Cr-W-Ni (ASTM F90)

  • Co-Ni-Cr-Mo (ASTM F562)

  • ASTM F799, con composizione analoga alla lega F75, ma tecnica di produzione diversa, che di fatto ne aumenta le caratteristiche di resistenza meccanica rispetto alla F75.

Proprietà meccaniche

Le ottime performance in termini di resistenza alla fatica delle leghe Co-Ni-Cr-Mo forgiate a caldo, rendono questi metalli particolarmente adatti nelle applicazioni che richiedono lunga durata senza presentare fenomeni di frattura o fatica del metallo, come il caso dello stelo delle protesi d’anca e di ginocchio.

Questi vantaggi diventano particolarmente rilevanti nel caso in cui sia necessario sostituire la protesi, poiché risulta estremamente complesso rimuovere i frammenti del vecchio impianto che deve essere inserito saldamente e in profondità nel canale midollare.

Le leghe Co–Ni–Cr–Mo non sono invece raccomandate per le superfici di contatto di protesi di giuntura, poiché hanno un basso coefficiente di scorrimento sia quando sono in contatto con se stesse sia con altri materiali.

In genere, si tratta di materiali costosi.

Anche il Vitallium è una lega cobalto-cromo-molibdeno (65% cobalto, 30% cromo, 5% molibdeno e altre sostanze).

La lega è usata in odontoiatria e nelle articolazioni artificiali, per la sua resistenza alla corrosione.

Titanio

Il titanio si distingue principalmente in due categorie legate a gradi e fasi, che rappresentano aspetti diversi ma complementari della sua classificazione.

Titanio commercialmente puro (CP)

Il titanio commercialmente puro è classificato in quattro gradi (1-4), che si differenziano per il contenuto di elementi interstiziali come ossigeno, ferro e azoto, i quali influenzano le proprietà meccaniche:

  • Grado 1: Il più duttile e morbido, con il più basso tenore di ossigeno (~0,18%), offre eccellente resistenza alla corrosione e alta formabilità.

  • Grado 2: Il più utilizzato, bilancia buona resistenza e duttilità, con eccellente resistenza alla corrosione e buona saldabilità. Impiegato in ambiti industriali, biomedicali, aerospaziali e marini.

  • Grado 3: Offre un incremento ulteriore della resistenza meccanica rispetto al grado 2, mantenendo ancora una buona duttilità.

  • Grado 4: Il più resistente tra i commercialmente puri a scapito di una minore formabilità.

Fasi del titanio

Il titanio esiste principalmente in due fasi cristalline (forme allotropiche), che dipendono dalla temperatura e dalla composizione:

  • Fase alfa (α): Struttura esagonale compatta (EC), stabile a temperature inferiori a circa 882 °C. È la fase predominante nel titanio commercialmente puro e conferisce buona resistenza alla corrosione, duttilità e saldabilità. Essa viene stabilizzata (alluminio, ossigeno, azoto).

  • Fase beta (β): Struttura cubica a corpo centrato (CCC), stabile sopra i 882 °C. Alcuni elementi di lega (vanadio, molibdeno, niobo) stabilizzano la fase beta a temperatura ambiente, migliorando la resistenza meccanica ma è più difficile da lavorare e non è saldabile.

Proprietà del titanio

Il titanio e le leghe al titanio devono la loro popolarità in campo biomedicale a:

  • eccezionale resistenza alla corrosione, in particolare alla corrosione in fessura, anche in ambienti aggressivi come il corpo umano. La resistenza a corrosione di questi metalli è superiore sia a quella dell’acciaio inossidabile sia delle leghe cobalto-cromo;

  • la leggerezza;

  • il modulo elastico più basso rispetto all’acciaio inossidabile e alle leghe cobalto-cromo (100–110 GPa VS 200–220 GPa), limita il fenomeno dello stress shielding;

  • osteointegrazione

  • Eccellente duttilità e un eccellente rapporto resistenza/peso specifico: in pratica, questi metalli hanno resistenze simili a quelle degli acciai inox convenzionali, ma con metà del peso.

I principali svantaggi di questi materiali in applicazioni ortopediche sono:

  • elevata sensibilità all’intaglio (la presenza di intagli, graffi o spigoli vivi riduce la loro resistenza a fatica);

  • bassa resistenza all’usura; le leghe di titanio non dovrebbero quindi essere usate per superfici articolari, come l’articolazione dell’anca o del ginocchio, a meno che le superfici non siano state preventivamente trattate in modo opportuno;

  • Estremamente suscettibili alla corrosione per sfregamento. Si tratta di uno dei principali limiti per l’impiego di questi materiali in applicazioni ortopediche, soprattutto perché rotture per fatica o semplicemente di tipo fragile spesso iniziano in corrispondenza della zona corrosa;

  • Il titanio e le sue leghe sono piuttosto difficili da lavorare, rispetto ad altri metalli;

  • Basse caratteristiche meccaniche per il titanio, molto migliori per le sue leghe;

  • Si tratta di materiali molto costosi.

Leghe di titanio

Le leghe sono classificate in base alla microstruttura e agli elementi stabilizzanti presenti:

  • Leghe Alfa (α): Contengono elementi che stabilizzano la fase alfa (come alluminio, ossigeno, azoto), non trattabili termicamente, con buona resistenza alla corrosione e saldabilità. Esempi: Ti-5Al-2Sn, Ti-8Al-1Mo-1V.

  • Leghe Beta (β): Contengono elevati stabilizzanti beta (molibdeno, vanadio, niobio), sono metastabili e possono essere trattate per alta resistenza e buona lavorabilità. Esempi: Ti-10V-2Fe-3Al, Ti-13V-11Cr-3Al.

  • Leghe Alfa -Beta (): Contengono stabilizzanti sia alfa che beta (come vanadio, molibdeno), possono essere trattate termicamente per ottimizzare resistenza e duttilità. Esempi: Ti-6Al-4V, la lega più usata industrialmente.

Vantaggi e svantaggi delle leghe  α + β

I principali vantaggi delle leghe di titanio α + β sono:

  • Elevate caratteristiche meccaniche;

  • Modulo di elasticità relativamente basso;

  • Buona biocompatibilità (inferiore comunque al titanio puro);

  • Deformabilità a caldo (e non a freddo).

Gli svantaggi sono:

  • Difficoltà di lavorazione per asportazione di truciolo;

  • Suscettibilità alla corrosione per sfregamento;

  • Grande difficoltà nell’ottenere dei componenti di buona qualità (getti) durante il processo di fusione della lega

La lega Ti6Al4V:

  • Contiene Al che stabilizza la fase e V che stabilizza la fase

  • È impiegata per protesi d’anca e di ginocchio, e per mezzi di osteosintesi ai quali vengano chieste elevate caratteristiche meccaniche (es. chiodi endomidollari).

  • Può portare a problemi di sensibilizzazione allergica per rilascio di ioni Al e V, non biocompatibili.

  • La resistenza meccanica del titanio e delle sue leghe varia da valori inferiori a quelli dell’acciaio 316 o delle leghe a base di cobalto, a valori quasi uguali a quelli dell’acciaio inox temperato ricotto (annealed) e delle leghe fuse cobalto/cromo/molibdeno. Se si considera, però, la resistenza specifica (resistenza su densità), la lega di titanio presenta valori migliori rispetto a qualsiasi altro materiale usato per la fabbricazione di dispositivi protesici.

Resistenza alla corrosione: ossido di titanio

La resistenza alla corrosione del titanio e delle sue leghe è dovuta alla loro abilità di formare uno strato protettivo di ossido di titanio (), compatto e aderente, praticamente inerte ai fluidi biologici.

Allo stesso tempo, l’ossido di titanio agisce da schermo tra il metallo e l’ambiente biologico, inibendo l’eventuale rilascio di ioni metallici nei tessuti.

Il film protettivo rende questo metallo resistente ad ambienti particolarmente aggressivi come acqua di mare, acidi fortemente ossidanti, soluzioni basiche, etc.

Il titanio e molto ben tollerato sia dai tessuti ossei che dai tessuti molli, presenta un livello di tossicità estremamente basso e non produce allergie;

È possibile ottenere superfici rugose che fungono da ottimo substrato per l’adesione e la crescita dei tessuti (ancora l’osteointegrazione);

Il titanio è impiegato per realizzare componenti non fortemente sollecitate, ad esempio, innesti e protesi dentarie, fili ortodontici, componenti di valvole cardiache, pacemaker, fili e chiodi per ossa non portanti, piastre protesiche maxillo-facciali.

La leggerezza insieme al basso modulo elastico permettono al metallo di comportasi un po’ più come l’osso naturale dal punto di vista biomeccanico. Inoltre si limiterà il fenomeno dello stress shielding: l’osso che ospiterà l’impianto ha meno probabilità di atrofizzarsi e riassorbirsi.

Protesi femorale

 

Una protesi femorale, o protesi totale d’anca, è un impianto chirurgico che sostituisce l'articolazione dell'anca danneggiata, ripristinando il movimento e riducendo il dolore. È composta da componenti modulari che replicano la testa del femore e la cavità acetabolare.

Struttura: i quattro componenti principali

  1. Stelo femorale

  • Inserito nel canale midollare del femore

  • Realizzato in leghe metalliche (titanio, cromo‑cobalto, acciaio inox)

  • Fissazione:

  • Press‑fit (non cementata): superficie ruvida, microporosa o rivestita con idrossiapatite per favorire osteointegrazione

  • Cementata: ancoraggio con cemento osseo a base di PMMA

  1. Testina femorale (head)

  • Sfera articolare fissata al colletto dello stelo

  • Materiali:

  • Ceramica (allumina, zirconia, ceramica delta): superfici levigate, elevata resistenza all’usura, bassa liberazione di detriti

  • Metallo (acciaio o leghe cromo‑cobalto, ossinium): meno usura, talvolta ceramizzata

  1. Inserto (liner)

  • Interposto tra testa e coppa per ridurre attrito

  • Tipologie:

  • Polietilene UHMWPE, spesso cross‑linkato o con vitamina E per aumentare la resistenza all’usura

  • Ceramica, per accoppiamento ceramica‑ceramica

  1. Coppa acetabolare (cotile)

  • Guscio metallico impiantato nel bacino

  • Materiali:

  • Titanio o leghe di titanio

  • Talvolta tantalio con struttura trabecolare, utile per osteointegrazione e azione batteriostatica

  • Fissazione: press‑fit e/o con idrossiapatite; talvolta cementata

Accoppiamenti per la tribologia (superfici di scorrimento)

Le superfici articolari funzionano in base al tipo di interfaccia tra testa e inserto:

  • Ceramica‑ceramica: minore usura, ideale per soggetti giovani

  • Ceramica‑polietilene: equilibrio tra usura e resistenza agli urti, spesso indicata per pazienti anziani

  • Metallo‑polietilene: ancora usato, ma con attrito superiore

  • Metallo‑metallo: usato in passato, oggi sconsigliato per rischio di rilascio ioni e metallosi

Materiali: sintesi

Componente

Materiali principali

Rivestimenti e Trattamenti

Stelo

Titanio (Ti‑6Al‑4V o Ti‑Nb), Cr‑Co, acciaio inox

Ruvidità/sabbiatura, microsfere, idrossiapatite, titanio poroso

Testina

Ceramica (allumina, zirconia, ceramica delta), Acciaio, Cr‑Co, Ossinium

Superficie levigata, sfera perfetta

Inserto

Polietilene UHMWPE (cross‑linkato, con Vit E), Ceramica

Destinato a restare fisso nel guscio, ottimizzato per attrito

Coppa (guscio)

Titanio, Cr‑Co, Tantalio trabecolare

riv. idrossiapatite o strutture porose per osteointegrazione

Osteointegrazione

Tipicamente, la complessa sequenza di eventi biologici, che caratterizza il processo di guarigione della ferita attorno a un dispositivo implantare, provoca la formazione di una capsula fibrotica attorno all’impianto stesso. Il fenomeno si verifica per la stragrande maggioranza dei biomateriali, con alcune eccezioni, ad esempio, quelli bioattivi. Si tratta della cosiddetta REAZIONE DA CORPO ESTRANEO.

L’osteointegrazione è l’unione, mediante legame fisico, dell’osso alla protesi.

Il tentativo di avvolgere il corpo estraneo con una capsula fibrotica rappresenta la reazione normale e fisiologica dell’organismo, che isola ciò che non riesce a degradare.

La composizione e lo spessore del tessuto fibroso dipendono da un insieme di fattori, che comprendono le caratteristiche chimico-fisiche della superficie del biomateriale, la sua morfologia e struttura, la presenza o meno di forze meccaniche che agiscono sull’impianto, la velocità di rilascio di sostanze chimiche e/o prodotti di corrosione, le caratteristiche del sito anatomico e il grado di necrosi provocato dalla ferita.

Se la capsula fibrotica, di fatto tessuto molle, è troppo spessa, può compromettere la stabilità dell’impianto fino a determinarne il fallimento.

Pensiamo, ad esempio, al caso di un impianto dentale che, al termine del processo di guarigione, non risulti ben ancorato e stabile;

L’esito ideale è invece l’integrazione dell’impianto con l’ambiente biologico circostante, in assenza di capsula fibrotica.

In odontoiatria, tutto ciò ha costituito una sfida fino ai progressi avvenuti a partire dalla metà degli anni ‘60, che hanno avuto per protagonista proprio il titanio.

Il termine osteointegrazione, è usato in odontoiatria, chirurgia maxillo-facciale e ortopedia per definire l'intima unione tra un osso e un impianto artificiale senza tessuto connettivo interposto.

Non sono presenti tessuto cicatriziale, cartilagine o fibre legamentose tra l'osso e la superficie dell'impianto.

Tale contatto diretto deve essere meccanicamente stabile, cioè la trasmissione delle forze all’interfaccia non deve generare movimenti relativi fra osso e protesi (o comunque i movimenti relativi devono essere davvero minimi, dell’ordine dei 100 micron).

Al termine del processo di osteointegrazione, la protesi dentale (o l’impianto ortopedico) risulta stabilmente e direttamente incorporata nel tessuto osseo del corpo, con l'osso che, crescendo, si è adattato intimamente alla superficie del biomateriale. Si realizza quindi una connessione fisica robusta tra osso e impianto, essenziale per il successo a lungo termine di vari dispositivi medici impiantabili, in quanto garantisce la stabilità e il funzionamento efficace dell'impianto all'interno del corpo umano.

L’osteointegrazione venne osservata per la prima volta col titanio e, tipicamente, quando si parla di osteointegrazione ci si riferisce tuttora a impianti in titanio o in lega di titanio. A rendere questi materiali così speciali è l’elevata biocompatibilità del film di ossido di titanio che li riveste, un materiale in grado di favorire l’adesione cellulare e l’integrazione ossea.

Fattori che favoriscono l’osteointegrazione

L’osteointegrazione tra la vite di titanio e l’osso si ha solo per legame fisico, non chimico.

L’osteointegrazione dipende:

  • Dalla forma e dalle dimensioni della protesi

  • Dalle modalità e dai materiali con cui è fabbricata la protesi

  • Dalle caratteristiche superficiali della protesi

  • Dalle modalità chirurgiche di impianto

Una superficie liscia è meno adatta a favorire la migrazione e l’adesione cellulare; per questo motivo, si sfruttano opportuni trattamenti per ottenere superfici rugose e/o macroporose, cioè con pori dell’ordine dei 100 µm nei quali l’osso può infiltrarsi così da ancorare l’impianto.

Steli femorali per protesi d’anca vengono prodotti con fori passanti nei quali può crescere l’osso.

In altri casi, lo stelo viene rivestito con idrossiapatite, una ceramica simile, da un punto di vista composizionale e microstrutturale, alla fase minerale dell’osso. In questo modo, l’osso la riconosce e si lega chimicamente a essa, favorendo l’osteointegrazione dell’intero impianto. Ciò avviene solo con l’idrossiapatite e non con il metallo sottostante.

Le moderne tecniche di Additive Manufacturing, permettono la realizzazione di strutture trabecolari e schiume rigide: da un lato, la crescita ossea all’interno delle cavità permette la completa osteointegrazione della protesi; dall’altro, è possibile “modulare” la rigidezza del componente, rendendola il più possibile simile a quella dell’osso, limitando lo stress- shielding.

NiTiNOL

Le leghe a memoria di forma (Shape Memory Alloys - SMA) hanno la capacità di recuperare una forma precedentemente definita quando soggetti a un’appropriata procedura di trattamento termico. Nel processo di recupero della forma originale, possono anche applicare delle forze e questa proprietà può essere ulteriormente sfruttata.

Le SMA più usate sono quelle capaci di recuperare una quantità significativa di deformazione (superelasticità) o quelle capaci di applicare ampie forze quando recuperano le loro forme originali. Un materiale superelastico torna alla forma originaria dopo una deformazione enorme, anche del 10%

La SMA più usata in ambito biomedicale è il Ni-Ti, nome commerciale Nitinol (Nichel Titanium Naval Ordinance Laboratory), con una composizione nell’intervallo tra Ni-49% Ti atomico e Ni-51% Ti atomico. Questo metallo, grazie alla memoria di forma, può recuperare una deformazione di circa 8.5%, ha una buona duttilità e un’eccellente resistenza alla corrosione che lo rende biocompatibile.

Le principali applicazioni del Nitinol includono dispositivi di attuazione nei quali il materiale:

  • viene impiegato in virtù della capacità di recuperare liberamente la sua forma originale

  • è completamente vincolato così che, recuperando la propria forma, esercita una forza sulla struttura vincolata. In entrambi i casi, la temperatura gioca un ruolo fondamentale.

SMA: meccanismo di comportamento

L’effetto di recupero della forma nelle SMA è il risultato della trasformazione di fase solido-solido tra le due possibili strutture cristalline del materiale: quella austenitica, stabile a più alta temperatura, e quella martensitica, stabile a temperatura ambiente. Tuttavia, il cambiamento avviene solo a livello microscopico, mentre non si osserva alcun cambiamento macroscopico dello stato di aggregazione del materiale: in altre parole, la transizione da austenite a martensite in seguito a raffreddamento mantiene la forma generale del cristallo.

Nella fase austenitica, il reticolo ha simmetria cubica a corpo centrato (CCC). In questa fase, detta anche parent phase, la lega è dura e difficilmente lavorabile.

Per impartire al metallo la memoria di forma desiderata (ovvero la forma di riferimento, quella che desideriamo sia recuperata), bisogna portarlo ad alta temperatura – tipicamente tra i 500 °C e gli 800 °C – a seconda del tipo di lega, e sottoporlo a sforzo meccanico, in modo da creare al suo interno una serie di difetti di reticolo permanenti (dislocazioni); sono questi difetti a dare all’austenite la proprietà di memoria, fissandone la forma macroscopica.

A temperature più basse (ovvero, temperatura ambiente), la struttura cristallina stabile è quella della martensite: una struttura cristallina tetragonale a corpo centrato (TCC), in cui gli atomi di Ni e di Ti sono disposti ai vertici di un parallelepipedo obliquo in modo alternato. Si tratta di una cella distorta, dove gli 8 Ti che circondano il Ni non sono equivalenti fra loro, ma si trovano a distanze diverse da esso.

Poiché la cella unitaria della martensite è obliqua, è possibile sovrapporre le singole celle le une sulle altre in due modi diversi:

  1. orientate tutte nella stessa direzione: si parla di forma non geminata o detwinned della martensite;

  2. le celle adiacenti possono avere due orientazioni diverse, speculari rispetto al piano orizzontale; si parla di forma geminata o twinned della martensite.

A differenza della fase austenitica, quando la SMA si trova a temperatura ambiente, ovvero nella fase martensitica, è molto facile da deformare applicando uno sforzo.

I domini twinned vengono stirati orientandosi tutti nella stessa direzione, un po’ come quando si apre un ventaglio, o si stende un mazzo di carte sul tavolo.

Se a questo punto il carico viene rimosso, la deformazione nella martensite rimane, dando l’impressione di una deformazione plastica, ovvero un deformazione che non viene più recuperata. In conclusione, la plasticità della fase martensitica è dovuta alla facilità con cui può passare dalla sua forma twinned alla forma detwinned.

Consideriamo ora il nostro campione metallico, a temperatura ambiente (dunque in fase martensitica) deformato rispetto alla "forma madre" impartita. Ricordiamo che i difetti di reticolo indotti durante il trattamento ad alta temperatura per impartire la forma macroscopica austenitica permangono inalterati anche nella fase martensitica.

Riscaldando il campione deformato, arriveremo a una temperatura in cui inizia la trasformazione da martensite (deformata) ad austenite, con recupero della forma originale che il materiale aveva in fase austenitica (ricordiamo che i difetti reticolari permangono in entrambe le fasi. Possiamo immaginare, in un certo senso, che "guidino" la trasformazione, come fossero dei paletti). La trasformazione si completa raggiunta una temperatura caratteristica , quando il materiale è costituito al 100% di austenite.

Se adesso lasciamo raffreddare il campione (100% austenite), raggiungerà una temperatura dove inizia la trasformazione austenite --> martensite, che si completerà a . A livello macroscopico, tuttavia, non ci accorgiamo di nulla, dato che, come abbiamo già visto, la trasformazione da austenite a martensite in seguito a raffreddamento mantiene la forma generale del cristallo.

Per dare una nuova forma all’austenite, ossia per far sì che il nostro campione metallico sia in grado di "ricordare" una forma diversa, è necessario portalo di nuovo ad alta temperatura in modo da rimuovere i difetti reticolari e, applicando sforzo meccanico, crearne un nuovo insieme che fissano la nuova forma.

SMA: superelasticità

È possibile indurre una trasformazione austenite → martensite anche applicando uno stress sul materiale, che ai fini pratici manifesterà un’incredibile flessibilità;

In questo caso, la temperatura di esercizio è generalmente al di sopra di o compresa tra la temperatura di inizio austenite e , e il materiale è pertanto nello stato austenitico.

 È la temperatura di fine trasformazione austenitica

Applicando una forza, l’austenite si trasforma in martensite;

La martensite rimane stabile solo sotto stress, e quando rilasciamo il carico il metallo ritorna allo stato austenitico, recuperando la relativa forma.

Diversamente dal fenomeno della memoria di forma, non è necessario alcun aumento di temperatura perché ciò avvenga. Il materiale cioè sembra elastico: per questo si parla di effetto pseudoelastico o, impropriamente, di superelasticità.

Ad esempio, le leghe che devono essere superelastiche a temperatura ambiente sono prodotte con temperature di appena al di sotto della temperatura ambiente, diciamo nell'intervallo di 0-20°C. Un materiale del genere mostrerà pertanto buone proprietà superelastiche alla temperatura corporea (37°C).

La superelasticità del nichel-titanio consente di osservare allungamenti molto grandi, anche dell’ordine dell’8%, rispetto a un massimo di meno dell'1% con altre leghe, come l'acciaio inossidabile. Sebbene altre leghe come rame-zinco, rame-alluminio, oro-cadmio e nichel-niobio abbiano dimostrato di possedere proprietà superelastiche, il nichel-titanio rimane la SMA più biocompatibile.

Nitinol applicazioni

Le applicazioni del Nitinol nel settore biomedicale sfruttano il fatto che le temperature caratteristiche di trasformazione di questa lega sono vicine a quella del corpo umano. Alcune applicazioni sfruttano l’effetto memoria di forma (→ variazione della temperatura), mentre altre la superelasticità della lega (→ l’applicazione di un carico).

  • Stent vascolari autoespandibili, utilizzati per garantire il flusso sanguigno nelle arterie otturate. La spiccata elasticità e flessibilità del Nitinol rende minimo il rischio che il dispositivo danneggi la parete del vaso, si rompa o si deformi anche a seguito dei movimenti del paziente durante le sue quotidiane attività.

  • filtro cavale Simon in Nitinol: è un dispositivo che entra in gioco per bloccare i coaguli come un filtro, qualora la terapia farmacologica anticoagulante non sia sufficiente. Questo filtro, alla temperatura corporea, ha una forma che ricorda quella di un ombrello e con le sue maglie metalliche è in grado di intercettare e trattenere i coaguli più grandi, riducendo drasticamente la mortalità. Viene inserito chiuso, tramite un catetere con soluzione salina refrigerata, introdotto nella vena femorale. Raggiunta la sede – di solito la vena cava inferiore, subito al di sotto dello sbocco delle vene renali – il dispositivo si autoespande per effetto del calore, recuperando la sua forma a ombrello aperto.

  • L’Amplatzer Septal Occluder (o occlusore settale di Amplatzer, dal nome del cardiologo che lo ha ideato) è un dispositivo utilizzato per correggere il difetto del setto interatriale. Questo difetto è una malformazione cardiaca congenita in cui i due atri del cuore comunicano tra loro invece di essere separati.

L’Amplatzer viene inserito tramite un catetere e, una volta raggiunta la sede del difetto, riprende la sua forma originale e sigilla il passaggio tra i due atri. Questo tipo di intervento permette di evitare un'operazione più invasiva a cuore aperto.

Applicazioni in ortodonzia ed endodonzia

I fili ortodontici in Nitinol sono ampiamente utilizzati per la loro capacità di esercitare una forza costante sui denti per un lungo periodo di tempo. Questo facilita il movimento graduale e prevedibile dei denti all'interno dell'arcata dentale, migliorando l'efficacia del trattamento e riducendo il disagio per il paziente.

Gli strumenti endodontici in nitinol, come le lime per la sagomatura dei canali radicolari (terapia canalare), sono molto apprezzati per la loro flessibilità, che si manifesta nella capacità di seguire la curvatura naturale dei canali radicolari. Questi strumenti sono anche più resistenti alla frattura da torsione rispetto alle tradizionali lime in acciaio inossidabile, migliorando la sicurezza e l'efficacia del trattamento canalare.

Polimeri naturali

I tessuti naturali contengono principalmente acqua e una minor parte di altre componenti cellulari, sostanze organiche e inorganiche, tra cui macromolecole, come le proteine e i carboidrati complessi.

L’impiego di polimeri naturali come biomateriali potrebbe pertanto rappresentare un’interessante alternativa ai materiali sintetici.

I polimeri naturali, come la proteine o i polisaccaridi:

  • hanno un’elevata affinità con l’acqua (idrofili), caratteristica non comune per i polimeri sintetici, e permettono pertanto di simulare una situazione più vicina a quella fisiologica;

  • sono strutturalmente molto simili alle macromolecole presenti nei tessuti naturali, quindi si adattano molto bene all’ambiente biologico;

  • non sono tossici e danno una bassa reazione infiammatoria

  • sono, in genere, biodegradabili, quindi ideali per applicazioni a breve termine che richiedono degradazione. La degradazione può avvenire mediante meccanismi enzimatici, con prodotti di degradazione ben tollerabili dall’organismo umano ed eliminati metabolicamente;

  • possono essere isolati da fonti naturali rinnovabili.

Tra le criticità abbiamo:

  • L’alta idrofilicità li rende particolarmente solubili in ambiente fisiologico e molto deboli meccanicamente;

  • La somiglianza con le sostanze presenti nel corpo umano rende possibile il riconoscimento da parte dei meccanismi di difesa e di riparo fisiologici, portando a reazioni avverse e a una precoce, a volte non facilmente controllabile, degradazione;

  • Per ottenere prodotti con purezza adeguata all’impiego biomedicale, sono spesso necessari lunghi e costosi processi chimici di estrazione e purificazione, così come modifiche sintetiche dei polimeri per contrastare una troppo veloce degradazione o una troppo elevata solubilità, o per aumentarne le caratteristiche meccaniche;

  • È complicato purificarli e modificarli in modo da avere un controllo sulle proprietà chimico-fisiche, meccaniche e morfologiche dei polimeri stessi, vista la complessità della loro struttura;

  • La riproducibilità delle caratteristiche chimico-fisiche non è sempre garantita a causa della variabilità inter-specie e delle diversità introdotte dai processi di purificazione;

  • Possibile immunogenicità (→ l'immunogenicità è la capacità di una sostanza di stimolare una risposta immunitaria nell'organismo);

  • Sensibilità alla temperatura: si decompongono o subiscono modifiche pirolitiche a temperature inferiori al loro punto di fusione.

  • Allo stato attuale, le applicazioni biomedicali dei polimeri sono piuttosto limitate rispetto a quelle delle classi di biomateriali più tradizionali

  • In genere, in polimeri di origine naturale trovano impiego in settori dove le scarse proprietà meccaniche non rappresentano un problema, come i sistemi per il rilascio di farmaci, i rivestimenti superficiali di altri biomateriali, i dispositivi pensati per coadiuvare la guarigione delle ferite, oppure specifiche tipologie di scaffold per ingegneria dei tessuti.

Come si rigenera un tessuto in laboratorio?

  1. Il tessuto viene prelevato dal paziente tramite biopsia, quindi dissociato in singole cellule utilizzando enzimi.

  2. Le cellule vengono seminate sullo scaffold, che funge da guida per la ricrescita tissutale in 3D, ottenendo un sistema biocomposito vivente. Opportuni fattori di crescita (GF) vengono aggiunti al sistema biocomposito, con lo scopo di promuovere l'adesione, la proliferazione e la differenziazione cellulare.

  3. Il tessuto danneggiato viene rimosso e il sistema biocomposito, dopo opportuna maturazione in un bioreattore, viene reimpiantato nel paziente. Lo scaffold verrà riassorbito mentre le cellule continuano a produrre la propria matrice extracellulare naturale.

Scaffold per l'ingegneria tissutale

Gli scaffold sono uno degli ingredienti chiave nell'ingegneria dei tessuti, insieme alle cellule e al condizionamento biochimico e fisico, che significa garantire un ambiente adeguato alla crescita del tessuto, il più simile possibile a quello fisiologico.

Dal punto di vista dell'ingegneria dei materiali, i tessuti possono essere visti come sistemi multifase composti da cellule che svolgono una specifica funzione e da una matrice extracellulare, che fornisce supporto strutturale alle cellule in una architettura 3D.

Gli scaffold vengono utilizzati in vivo, cioè all'interno del corpo, per simulare la matrice extracellulare del tessuto da ripristinare, oppure in vitro, dove fungono da substrato di coltura cellulare.

Requisiti per un buono scaffold

  • Sono biocompatibili e possono anche essere bioattivi;

  • Devono essere altamente porosi e possedere una trama di pori interconnessi per consentire l’infiltrazione delle cellule, un'adeguata diffusione di nutrienti e fluidi e la formazione di nuovi vasi sanguigni;

  • Devono essere riassorbibili in modo prevedibile, alla stessa velocità con cui il nuovo tessuto viene via via rigenerato, con prodotti di degradazione non tossici che possono essere facilmente secreti dall'organismo;

  • Devono avere adeguate proprietà meccaniche sia in vitro – per essere facilmente maneggiabili – sia in vivo, per corrispondere idealmente alle caratteristiche del tessuto vivente da rigenerare;

  • Devono avere una chimica e una struttura superficiale in grado di favorire l’attecchimento, la proliferazione e la differenziazione cellulare, così come l'adsorbimento di metaboliti biologici;

  • Devono stimolare la rigenerazione dei tessuti viventi, cioè attivare specifici geni attraverso la loro dissoluzione; ciò significa che dovrebbero essere realizzati con biomateriali di terza generazione;

  • Deve essere possibile funzionalizzare la loro superficie, per far sì che, se necessario, possano rilasciare farmaci antinfiammatori, antibiotici, fattori di crescita, ecc.;

  • Devono essere facilmente sterilizzabili senza che ne siano compromesse le proprietà;

  • Devono essere facilmente lavorabili, poiché devono essere fabbricati con forme irregolari in modo da adattarsi al difetto tissutale del paziente; in tal senso, grandi prospettive sono state inaugurate dall’avvento della stampa 3D;

  • Devono avere costi accettabili.

Proteine come biomateriali

Una proteina è una macromolecola biologica complessa costituita da una o più catene di amminoacidi legate tra loro da legami peptidici.

Le proteine sono fondamentali per quasi tutte le funzioni biologiche negli organismi viventi e sono coinvolte in una vasta gamma di processi cellulari.

Le proteine sono componenti essenziali per la struttura, la funzione e la regolazione delle cellule e dei tessuti negli organismi viventi.

La loro enorme varietà e diversità funzionale rendono le proteine uno dei gruppi di molecole più importanti in biologia.

Struttura di Base di un Amminoacido

Un amminoacido è composto da quattro componenti principali legati a un atomo di carbonio centrale:

  • Un gruppo amminico (-NH₂) = si comporta da base, potendo accettare protoni (H⁺);

  • Un gruppo carbossilico (-COOH) = si comporta da acido, potendo donare protoni;

  • Un atomo di idrogeno (H)

  • Una catena laterale specifica (R), che varia da un amminoacido all’altro ed è il fattore che distingue i diversi amminoacidi

Caratteristiche chimiche degli amminoacidi

Gli amminoacidi (AA) presentano alcune caratteristiche chimiche peculiari, tali da poter dare origine alle straordinarie proprietà e alla varietà delle proteine:

  • Forma zwitterionica: in soluzione acquosa, a pH fisiologico (~7.4), gli amminoacidi esistono principalmente come zwitterioni, cioè molecole con una carica positiva sul gruppo amminico (-NH₃⁺) e una carica negativa sul gruppo carbossilico (-COO⁻). Questo conferisce agli amminoacidi la capacità di agire sia come acidi che come basi, rendendoli anfoteri.

  • Chiralità: Tutti gli amminoacidi (eccetto la glicina, in cui la catena R è semplicemente un atomo di idrogeno) sono chirali, cioè hanno un atomo di carbonio centrale (detto carbonio α) che è legato a quattro gruppi differenti (gruppo amminico, gruppo carbossilico, catena laterale R e un idrogeno).

Gli amminoacidi naturali esistono prevalentemente nella forma enantiomerica L, una configurazione chirale specifica che è cruciale per la funzione biologica.

Una molecola non identica alla propria immagine speculare è detta chirale ed esiste in due forme dette enantiomeri che sono immagini speculari reciproche.

  • Gruppi funzionali nella catena laterale (R): La catena laterale R degli amminoacidi è ciò che conferisce a ciascun amminoacido le sue proprietà chimiche uniche. Le catene laterali possono essere:

  • Polari e interagire bene con l'acqua o altre molecole polari;

  • Apolari o idrofobiche e tendono a formare interazioni idrofobiche all'interno delle proteine;

  • Acide, dotate di un gruppo carbossilico in più nella catena laterale che può ionizzarsi;

  • Basiche, con gruppi che possono accettare protoni e formare legami ionici;

L’unico amminoacido da imparare a memoria è la glicina

 

Ci sono gli amminoacidi essenziali, che sono quelli che non riusciamo a sintetizzare da soli ma dobbiamo integrare con l’alimentazione.

Proteine: catene di amminoacidi

Gli amminoacidi si uniscono tra loro con legami tra il gruppo di un amminoacido e il -COOH di un altro amminoacido (liberando una molecola di ); si forma così il legame peptidico.

Catene con meno di 50 unità sono chiamate peptidi.

Catene più lunghe sono le proteine, che rivestono svariate funzioni fondamentali in biologia.

Il legame peptidico presenta la caratteristica di avere gli atomi costituenti (-NHCO-) che giacciono tutti sullo stesso piano, senza possibilità di libera rotazione, mentre per tutti gli altri legami tra atomi di carbonio in c’è libera rotazione.

Struttura delle proteine

La struttura delle proteine è organizzata su quattro livelli gerarchici: struttura primaria, secondaria, terziaria e quaternaria.

Nella struttura primaria entrano in gioco legami covalenti, quindi forti, mentre struttura secondaria, terziaria e quaternaria sono determinate da forze più deboli (legami a idrogeno, forze di van der Waals, interazioni ioniche, etc.).

Ognuno di questi livelli di organizzazione è cruciale per la funzione biologica delle proteine, poiché la forma di una proteina è strettamente correlata alla sua funzione.

Struttura primaria

La struttura primaria di una proteina è la sequenza lineare degli amminoacidi legati tra loro da legami peptidici. Questa sequenza costituisce la base per tutte le strutture più complesse. La disposizione specifica degli amminoacidi lungo la catena è fondamentale perché determina come la proteina si ripiegherà nei livelli successivi.

Struttura secondaria

La struttura secondaria riguarda la disposizione spaziale locale della catena polipeptidica, stabilizzata da legami a idrogeno tra gli atomi della spina dorsale (backbone) della proteina, cioè gli atomi che partecipano al legame peptidico.

I principali elementi della struttura secondaria sono:

  • α-elicastruttura a spirale, in cui i legami a idrogeno si formano tra il gruppo -NH di un legame peptidico e il gruppo -CO di un altro legame peptidico situato a quattro amminoacidi di distanza lungo la catena;

  • β-fogliettostruttura piatta o piegata, in cui catene polipeptidiche adiacenti sono tenute insieme da legami a idrogeno tra il gruppo -NH e il gruppo -CO di legami peptidici appartenenti a catene diverse;

  • Turns o loopregioni meno strutturate che collegano elementi di α-eliche o β-foglietti e che spesso fungono da flessibili punti di piegamento nella struttura della proteina.

Struttura terziaria

La struttura terziaria descrive la disposizione tridimensionale complessiva dell’intera catena polipeptidica, che è cruciale per il buon funzionamento della proteina stessa. È determinata principalmente dalle interazioni tra le catene laterali R degli amminoacidi, e include diversi tipi di legami e forze:

  • Interazioni idrofobiche → amminoacidi apolari tendono a raggrupparsi all'interno della proteina per evitare il contatto con l'acqua;

  • Legami a idrogeno → possono formarsi tra catene laterali polari;

  • Legami ionici → tra gruppi laterali carichi positivamente e negativamente;

  • Ponti disolfuro → legami covalenti tra due molecole di cisteina;

  • Forze di Van der Waals → Interazioni deboli ma numerose tra atomi vicini.

Struttura quaternaria

La struttura quaternaria si riferisce alla disposizione di più catene polipeptidiche (dette subunità) che si assemblano per formare una proteina funzionale.

Le deboli interazioni fra le sottounità contribuiscono a stabilizzare la struttura complessiva.

Non tutte le proteine hanno una struttura quaternaria; solo quelle che sono costituite da più subunità ne sono dotate.

Questi quattro livelli strutturali consentono alle proteine di assumere forme tridimensionali complesse e specifiche.

È la combinazione di sequenza amminoacidica (struttura primaria) e delle interazioni chimiche tra le catene laterali che permette alle proteine di ripiegarsi in strutture altamente funzionali, con una grande diversità di forme e funzioni biologiche.

Alcune funzioni biologiche delle proteine:

  • Enzimi = proteine che catalizzano le reazioni biologiche

  • Ormoni = proteine che regolano particolari processi dell’organismo

  • Proteine di riserva = proteine che immagazzinano nutrienti

  • Proteine strutturali = proteine che formano la struttura degli organismi

  • Proteine di trasporto = proteine che trasportano l’ossigeno e altre sostanze attraverso il corpo

Classificazione delle proteine

  • Le proteine semplici sono costituite solamente da amminoacidi;

  • Le proteine coniugate, che sono molto più diffuse delle proteine semplici, oltre che dagli amminoacidi, sono costituite anche da altri composti quali carboidrati, grassi, ioni metallici, gruppi fosfato o acidi nucleici.

  • Le proteine fibrose sono costituite da catene polipeptidiche disposte fianco a fianco in lunghi filamenti;

  • Le proteine globulari si raggomitolano in forme compatte, quasi sferiche; la gran parte degli enzimi sono proteine globulari.

Alcune tipologie di proteine globulari:

  • Glicoproteine = proteine legate a un carboidrato

  • Lipoproteine = proteine legate a lipidi

  • Metalloproteine = proteine legato a uno ione metallico

  • Nucleoproteine = proteine legate all’RNA (acido ribonucleico)

  • Fosfoproteine = proteine legate ad un gruppo fosfato

Denaturazione delle proteine

La struttura terziaria di una proteina globulare è il risultato di un gran numero di interazioni intramolecolari che possono essere distrutte da un cambiamento dell’ambiente (variazioni di pH, temperatura, azione meccanica, agenti chimici).

La denaturazione è quindi la rottura dei legami interni delle proteine, che cambiano forma rispetto al loro stato nativo (si “srotolano”) → la proteina non svolge più la sua funzione!

La denaturazione in genere è irreversibile.

Coagulazione delle proteine

La coagulazione delle proteine è il processo mediante il quale le proteine denaturate si aggregano per formare una struttura solida o semi-solida.

Le catene polipeptidiche denaturate tendono ad aggregarsi perché le parti idrofobiche, normalmente nascoste all'interno della proteina nativa, vengono esposte all'ambiente circostante (spesso acquoso) e si aggregano per evitare il contatto con l'acqua.

Questo porta alla formazione di nuovi legami intermolecolari, come legami a idrogeno e legami idrofobici tra le proteine denaturate, formando una rete.

Matrice extracellulare (ECM)

Una parte sostanziale del volume dei tessuti è costituita dallo spazio extracellulare, in gran parte riempito da una intricata rete di macromolecole che costituiscono la matrice extracellulare (ECM).

La matrice ha una struttura complessa, che comprende una varietà di proteine e polisaccaridi, secreti localmente, che si aggregano in un reticolo organizzato in maniera compatta e connesso alla superficie della cellula che l'ha prodotto.

Le sue funzioni principali sono:

  • Supporto strutturale per le funzioni biomeccaniche e l’ancoraggio delle cellule: la ECM fornisce un'impalcatura meccanica che sostiene le cellule e definisce la forma dei tessuti e degli organi. Le proteine come il collagene e l'elastina contribuiscono a questo ruolo. La ECM favorisce l'adesione delle cellule attraverso molecole specifiche come le integrine, che mediano il collegamento tra la matrice e il citoscheletro delle cellule, influenzando così la forma e il movimento cellulare;

  • Regolazione del comportamento cellulare, del "traffico" di fluidi, molecole e nutrienti: La ECM regola vari processi cellulari, come la proliferazione, la differenziazione e la migrazione, tramite segnali biochimici che vengono trasmessi alle cellule.

  • Trasduzione di segnali: la ECM è coinvolta nella trasmissione di segnali meccanici e biochimici che influenzano la funzione cellulare.

  • Rigenerazione e riparazione dei tessuti: Durante la rigenerazione e la riparazione dei tessuti, la ECM agisce come una guida per il movimento delle cellule, favorendo la riorganizzazione e la ricostruzione dei tessuti danneggiati.

  • Sviluppo del microambiente tissutale (sequestra, immagazzina e fornisce molecole regolatorie solubili)

  • Compartimentazione e protezione: La ECM può fungere da barriera fisica, compartimentando diversi tipi di tessuti e proteggendoli da danni meccanici o chimici.

  • ECM specializzate per determinate funzioni, come resistenza (tendini) o ammortizzare sollecitazioni meccaniche (cartilagine)

In sintesi, la ECM non è solo una struttura di supporto, ma ha un ruolo attivo nel mantenimento dell'omeostasi e nella comunicazione tra le cellule.

L’omeostasi è il processo attraverso il quale un organismo o una cellula mantiene un ambiente interno stabile e costante, nonostante i cambiamenti esterni. Questo equilibrio dinamico è fondamentale per il corretto funzionamento delle cellule e dei sistemi biologici. L'omeostasi riguarda una serie di parametri vitali come la temperatura corporea, il pH del sangue, i livelli di glucosio, l'equilibrio idrico e la concentrazione di elettroliti.

Componenti della matrice extracellulare

  • Proteine fibrose = che a loro volta si dividono in:

  • Collagene: È la proteina fibrosa più abbondante e fornisce resistenza meccanica e struttura ai tessuti.

  • Elastina: Conferisce elasticità ai tessuti, consentendo loro di allungarsi e tornare alla loro forma originale, come nei polmoni, nella pelle e nei vasi sanguigni.

  • Fibronectina: Coinvolta nell'adesione cellulare e nel legame delle cellule alla matrice

  • Proteoglicani = molecole formate da una proteina centrale a cui sono legati lunghi zuccheri complessi, detti glicosaminoglicani o GAG. Queste molecole attraggono acqua, creando un ambiente idratato che ammortizza e lubrifica i tessuti. Un GAG che riveste grande importanza in campo biomedicale è l’acido ialuronico.

  • Acqua, soluti e altro

Collagene

Il collagene è la proteina strutturale più abbondante nei tessuti dei mammiferi nonché la componente principale della matrice cellulare e del tessuto connettivo, che definisce e fornisce la forma e la struttura dell’organismo, forma barriere tra l’organismo e l’ambiente circostante, e definisce i compartimenti interni dell’organismo.

Viene sintetizzato per lo più dai fibroblasti in forma di protocollagene, che viene poi trasformato in collagene dopo esportazione nella matrice cellulare.

Esistono diversi tipi di collagene, ognuno con funzioni specifiche in vari tessuti, che formano fibre con lo scopo di limitare le deformazioni dei tessuti e di prevenirne le rotture meccaniche. Troviamo collagene, tipicamente, nella pelle, nei tendini, nelle ossa, nelle cartilagini e nei tessuti cardiovascolari.

La sua degradazione porta alle rughe che accompagnano l’invecchiamento.

Sintesi riassuntiva del processo di produzione del collagene

  1. Sintesi delle catene polipeptidiche da parte dei fibroblasti → formazione del procollagene

  2. procollagene → formazione del tropocollagene.

  3. Autoassemblaggio del tropocollagene in fibrille → formazione del collagene maturo.

La struttura primaria del collagene è caratterizzata da una sequenza ripetitiva di amminoacidi che conferisce stabilità e flessibilità a questa proteina fibrosa.

Il collagene è composto da triplette di amminoacidi, in cui la sequenza predominante è:

Glicina – X - Y

Dove:

  • Glicina (Gly) è l'amminoacido più piccolo e si ripete in sequenza ogni tre residui amminoacidici lungo tutta la lunghezza della catena.

  • X e Y rappresentano in genere prolina (Pro) e idrossiprolina (Hyp); è anche comune l’idrossilisina (Hyl) e sono presenti ulteriori amminoacidi. Questa sequenza ricorrente (Gly-X-Y, con X spesso prolina e Y spesso idrossiprolina) consente la formazione di una struttura molto compatta, resistente e flessibile.

L'unità fondamentale del collagene è chiamata tropocollagene, che è una molecola costituita da tre catene polipeptidiche (chiamate catene alfa) intrecciate in una singola tripla elica. Il tropocollagene è il precursore che si unisce per formare le fibre di collagene più grandi.

Ogni catena polipetidica del tropocollagene (detta catena , da non confondere con l’ elica delle proteine globulari), si avvolge a spirale sinistrorsa, cioè gira in senso antiorario se osservata lungo l’asse della catena. Tre catene polipeptidiche del collagene (-Gly-X-Y-Gly-X-Y-Gly-X-Y...) si avvolgono l’una attorno all’altra formando una tripla elica destrorsa (cioè gira in senso orario). Questa struttura è molto stabile grazie alla piccola dimensione della glicina, che si trova all’interno dell’elica, ai legami a idrogeno e a legami crociati di tipo covalente che si stabiliscono tra una molecola proteica e l’altra.

I legami crociati sono connessioni chimiche (ad esempio legami covalenti) che si formano tra le catene laterali delle molecole di collagene. Questi legami:

  • Stabilizzano la struttura a tripla elica del collagene.

  • Rendono la fibra di collagene molto resistente alla trazione e poco solubile.

  • Aumentano con l’età e con i processi di maturazione del tessuto, rendendo il collagene ancora meno solubile e più rigido.

Questa geometria (sinistra + sinistra + sinistra = destrorsa) garantisce una struttura compatta e resistente, ideale per il ruolo strutturale del collagene nei tessuti connettivi.

NOTA: l’idrossiprolina è prodotta dal corpo dalla prolina attraverso reazioni biochimiche che necessitano della vitamina C, che il corpo non può produrre -> Senza vitamina C, la reazione non avviene correttamente, e questo compromette la stabilità del collagene. È per questo motivo che la carenza di vitamina C provoca lo scorbuto, una malattia caratterizzata da un'alterata sintesi del collagene, con conseguente fragilità dei tessuti connettivi.

Le molecole di tropocollagene si organizzano in modo ordinato formando fibrille attraverso interazioni non covalenti e legami covalenti (legami crociati). Questo conferisce al collagene una notevole resistenza alla trazione, impedendo lo scivolamento fra le molecole. Le fibrille si assemblano ulteriormente per formare fibre di collagene, visibili nei tessuti connettivi.

In sintesi:

1. Collagene: Sequenza ripetitiva Gly-X-Y, con X spesso prolina e Y spesso idrossiprolina

2. Tripla elica: Formata da tre catene alfa.

3. Tropocollagene: precursore o unità strutturale base del collagene, formato da tripla elica.

4. Fibrille: Aggregazione di tropocollagene.

5. Fibre di collagene: Struttura finale composta da più fibrille, con legami crociati tra le molecole di tropocollagene. Questa struttura gerarchica conferisce al collagene proprietà meccaniche essenziali per il funzionamento di tessuti come la pelle, le ossa, i tendini e i legamenti. Ha un ruolo cruciale nel fornire resistenza alla trazione.

Comportamento meccanico a trazione delle fibre di collagene

Collagene come biomateriale

Come abbiamo già avuto modo di notare, i polimeri di origine naturale come il collagene, sono utilizzati come biomateriali, e nella fattispecie nel campo dell’ingegneria tissutale/medicina rigenerativa, principalmente grazie alle loro buone proprietà biologiche, che derivano in una certa misura da una sorta di "somiglianza" con la ECM.

Il collagene di tipo I, che è anche il più abbondante, è il più usato come biomateriale. Le sue caratteristiche lo rendono particolarmente adatto per vari scopi:

  • Non solubilità: il collagene nella sua forma naturale, come presente nei tessuti animali, non è solubile in acqua a causa della sua struttura altamente organizzata e della presenza di numerosi legami crociati (cross-linking) tra le catene polipeptidiche che formano la tripla elica. Questi legami crociati conferiscono al collagene una grande stabilità meccanica e resistenza (reticolazione, ossia le catene si legano tra loro formando una rete tridimensionale. Un aumento eccessivo della reticolazione può rendere il collagene troppo rigido, riducendone la flessibilità e la capacità di favorire la rigenerazione dei tessuti.), ma ne limitano la solubilità nei fluidi acquosi. Di conseguenza il collagene non assorbe acqua.

Per rendere il collagene solubile e più facilmente assorbibile dall’organismo (ad esempio negli integratori o nei cosmetici), viene sottoposto a processi di idrolisi che rompono i legami crociati e la struttura fibrillare. Il risultato sono peptidi di collagene idrolizzato, che sono solubili in acqua e altamente biodisponibili.

  • Buona biocompatibilità: Il collagene è una proteina naturale presente nei tessuti umani e animali, quindi è generalmente ben tollerato dal corpo, riducendo il rischio di reazioni immunitarie o di rigetto.

  • Biodegradabilità: Viene degradato in modo naturale dagli enzimi del corpo (collagenasi), il che lo rende utile in applicazioni dove è necessario che il materiale venga gradualmente assorbito o rimosso.

Il collagene utilizzato per scopi biomedicali può essere ricavato da diverse fonti, sia naturali che sintetiche. Le principali fonti di collagene includono:

  • Fonti animali = bovini, suini, pesci (collagene marino): estratto principalmente dalla pelle, dai tendini e dalle ossa di bovini e suini, oppure dalla pelle, dalle squame e dalle ossa dei pesci (merluzzo, salmone). Il collagene bovino è una delle fonti più comuni, largamente utilizzato grazie alla sua abbondanza e al basso costo.

  • Fonti umane = tra cui:

  • collagene autologo o donato = in alcuni casi, il collagene può essere ottenuto direttamente dal paziente (autologo) o da donatori umani, ad esempio attraverso la donazione di pelle o tessuti.

  • Collagene ricombinante: Le fonti animali rimangono le più comuni per la produzione di collagene per uso biomedicale, ma i progressi nelle biotecnologie stanno aprendo la strada all'uso di collagene ricombinante, che offre vantaggi in termini di sicurezza e personalizzazione. In questo caso, il materiale viene prodotto attraverso tecniche di ingegneria genetica, in cui il gene del collagene umano viene inserito in cellule batteriche o lieviti, che poi lo producono.

Questo tipo di collagene è privo di rischi di trasmissione di malattie e offre una composizione più prevedibile. Tuttavia, la sua produzione su larga scala può essere costosa e complessa.

Tra le maggiori criticità abbiamo:

  • Rischio di reazioni allergiche e rigetto = Il collagene di origine animale o marino può scatenare reazioni allergiche in alcune persone, specialmente se il materiale non è stato adeguatamente purificato. Anche se raro, il corpo può riconoscere il collagene come "estraneo" e attivare una risposta immunitaria.

  • Rischio di trasmissione di malattie = Il collagene derivato da fonti animali potrebbe, in teoria, trasmettere malattie zoonotiche (malattie trasmesse dagli animali agli esseri umani), come prioni o virus. Anche in questo caso, i processi di purificazione riducono notevolmente questi rischi.

  • Variazione nella qualità e nella purezza = La qualità e la purezza del collagene possono variare a seconda della fonte e del processo di estrazione. La presenza di contaminanti, residui chimici o altri componenti non desiderati può influenzare le prestazioni del collagene, specialmente in applicazioni sensibili come quelle biomedicali.

  • Degradazione e durata = Il collagene è biodegradabile e si degrada rapidamente nel corpo. Questo è un vantaggio in alcune applicazioni (come impianti o suture riassorbibili), ma può essere un limite quando è richiesta una maggiore durata, come nelle protesi o nei filler dermici, dove il collagene tende a riassorbirsi più rapidamente rispetto ad altri materiali.

  • Costi di produzione = La produzione di collagene ad alta purezza, soprattutto se ricombinante o derivato da fonti umane, può essere costosa. Anche i processi di purificazione per eliminare potenziali agenti patogeni e ridurre il rischio di allergie possono aumentare significativamente i costi.

  • Proprietà meccaniche limitate = Sebbene il collagene sia flessibile e resistente in certe condizioni, le sue proprietà meccaniche non sono sempre ideali per tutte le applicazioni. Per esempio, non è abbastanza rigido o resistente per l'uso in strutture che devono sopportare un carico elevato, come ossa o impianti dentali, a meno che non venga combinato con altri materiali.

  • Stabilità e conservazione = Il collagene può essere sensibile a condizioni ambientali come la temperatura, l'umidità e il pH. La sua stabilità può essere un problema, specialmente nelle formulazioni che devono avere una lunga durata di conservazione o essere applicate in ambienti difficili.

  • Rigenerazione limitata = Sebbene il collagene promuova la rigenerazione dei tessuti, in alcuni contesti può essere meno efficace rispetto ad altri materiali o biomolecole più sofisticate, specialmente in applicazioni che richiedono una rigenerazione complessa o la stimolazione di un'ampia varietà di tipi cellulari.

  • Difficile da sterilizzare = Qualsiasi processo di sterilizzazione determina una qualche alterazione della struttura del collagene.

Principali applicazioni

  • Supporto per la rigenerazione dei tessuti: il collagene è utilizzato per creare strutture (scaffold) che supportano la crescita cellulare e la rigenerazione dei tessuti. È ampiamente impiegato nell'ingegneria dei tessuti per riparare la pelle, cartilagine, tendini e ossa.

  • Chirurgia estetica e ricostruttiva: viene impiegato nei filler dermici e in altre procedure cosmetiche per migliorare l'aspetto della pelle e ripristinare volume e tonicità.

  • Suture e dispositivi medici: viene utilizzato nella produzione di suture riassorbibili, membrane per ferite, spugne emostatiche e dispositivi medici per la riparazione dei tessuti. La reticolazione permette di produrre suture e impianti che si degradano lentamente, favorendo la guarigione dei tessuti senza la necessità di una rimozione successiva.

  • Sistemi di rilascio controllato di farmaci: il collagene è utilizzato come veicolo per il rilascio di farmaci, in quanto può biodegradarsi lentamente, rilasciando farmaci o fattori di crescita in modo controllato.

  • Materiali per riempimento in ambito odontoiatrico: il collagene è impiegato nei prodotti di riempimento per trattare difetti ossei o per supportare la crescita di nuovo tessuto gengivale.

  • Rigenerazione della cartilagine: il collagene, spesso combinato con altri materiali come l'acido ialuronico o fattori di crescita, è utilizzato per rigenerare la cartilagine nelle articolazioni, particolarmente in trattamenti per l'artrosi.

  • Ferite croniche: il collagene viene impiegato per trattare ulcere e ferite difficili da guarire, favorendo la rigenerazione del tessuto e la chiusura della ferita.

Gelatina

La gelatina si ricava dalla denaturazione e idrolisi del collagene, un processo che rompe i legami peptidici nella struttura fibrosa della proteina, trasformandolo in molecole più piccole e solubili.

La trasformazione del collagene in gelatina avviene attraverso un trattamento termico (scaldando) in condizioni acide o basiche, a seconda del tipo di collagene e dalla fonte animale da cui viene estratto.

Una volta che le catene proteiche del collagene sono state spezzate, si ottiene una soluzione di gelatina, che, raffreddandosi, solidifica formando una rete tridimensionale capace di trattenere acqua e gonfiarsi, dando luogo al tipico gel della gelatina.

Mentre la gelatina può solidificarsi in un gel e tornare a uno stato liquido con il riscaldamento (un processo reversibile per la gelatina stessa), la trasformazione dal collagene alla gelatina comporta un cambiamento strutturale permanente a livello molecolare, con rottura dei legami per idrolisi termica e chimica e perdita della configurazione complessa a tripla elica.

Pertanto, il trattamento che trasforma il collagene in gelatina è irreversibile.

Se aggiungiamo i biovetri nella gelatina possiamo renderla antibiotica per due motivi:

  • I biovetri sciogliendosi alzando il pH, uccidendo i batteri

  • I biovetri contengono ioni antibatterici

Fibroina

La fibroina è una proteina fibrosa ottenuta dalla seta. Rispetto a ogni altra proteina è dotata di elevatissime proprietà meccaniche, e può essere ottenuta in forma di filamento, film, polvere, gel e membrane.

I filamenti di seta grezzi vengono prodotti da alcuni tipi di insetti e ragni. Per isolare i filamenti di fibroina dalla seta grezza è necessario un processo di «sgommatura», che elimina la sericina, una proteina che circonda la fibroina e funge da collante.

La fibroina è formata da catene polipetidiche di circa 1000 residui amminoacidici. I tipi di amminoacidi variano a seconda dell’origine della seta grezza.

La ricorrenza di tre aminoacidi semplici come maggiori costituenti è responsabile delle caratteristiche meccaniche delle fibre della seta; la buona robustezza e resistenza all’allungamento vengono attribuite allo stretto impaccamento e ai forti legami tra le catene che si sviluppano.

La fibroina esiste in diverse forme e può denaturarsi, venire degradata da acidi, basi o enzimi, e può subire ossidazione e reticolazione.

Storicamente è stata impiegata in fili di sutura non riassorbibili, mentre in tempi più recenti si è rivelata un materiale interessante per l’ingegneria dei tessuti in quanto è biocompatibile, degradabile seppur molto lentamente, e per le sue eccellenti proprietà meccaniche.

I polisaccaridi

I carboidrati, chiamati anche glucidi o zuccheri, sono molecole composte da carbonio, idrogeno e ossigeno. Il loro nome deriva dalla combinazione di carbonio e acqua, avendo essi formula chimica generale .

La classificazione dei carboidrati dipende dal numero di unità di zucchero (saccaridi) che contengono. Si dividono in quattro gruppi principali:

  • Monosaccaridi = composti da una sola unità di zucchero

  • Disaccaridi = composti da due unità di zucchero legate insieme

  • Oligosaccaridi = composti da 3 a 10 unità di zucchero

  • Polisaccaridi = sono i carboidrati più complessi, formati da molte (anche migliaia) unità di zucchero.

I polisaccaridi possono essere considerati polimeri o copolimeri derivanti dalla formazione di legami tra una o più unità olisaccaridiche.

La struttura primaria, analogamente a quanto viene definito per le proteine, è costituita da una sequenza delle unità olisaccaridiche collegate tra loro dal legame glicosidico e dalla configurazione del polisaccaride.

Come i materiali polimerici, possono avere una configurazione lineare o ramificata, con ramificazioni di lunghezze diverse. Possono contenere blocchi di unità oligosaccaridiche che si ripetono alternati a porzioni in cui sono presenti altri monosaccaridi o ripetizioni casuali di questi. La variabilità strutturale determinata dall’elevato numero di unità olisaccaridiche presenti in natura – di gran lunga numericamente superiori ai 20 amminoacidi che compongono le proteine – la variabilità conformazionale, i diversi legami glicosidici possibili nella formazione di polisaccaridi da unità olisaccaridiche, determinano la notevole variabilità funzionale di queste macromolecole.

I principali polisaccaridi semplici, composti interamente da glucosio sono:

  • Cellulosa: fornisce struttura alle pareti cellulari delle piante, non digeribile dall’uomo ma utile per la fibra alimentare;

  • Amido: la riserva energetica delle piante, immagazzinata in semi e tuberi;

  • Glicogeno: la riserva energetica degli animali, immagazzinata nel fegato e nei muscoli.

Polisaccaridi complessi

Esistono poi polisaccaridi complessi, che hanno strutture più elaborate rispetto ai polisaccaridi «semplici» come cellulosa e amido, e svolgono ruoli più diversificati, di interesse anche per i biomateriali.

  • Polisaccaridi strutturali: Chitina e alginato rientrano principalmente in questa categoria, in quanto svolgono un ruolo strutturale nei tessuti biologici (esoscheletri per la chitina e pareti cellulari delle alghe per l'alginato).

  • Polisaccaridi bioattivi o funzionali: Il chitosano e l'acido ialuronico sono utilizzati per applicazioni biomediche grazie alle loro proprietà bioattive, come la biocompatibilità, la capacità di trattenere acqua o formare gel.

  • Glicosaminoglicani (GAGs): L'acido ialuronico rientra tra i glicosaminoglicani, un gruppo di polisaccaridi complessi costituiti da unità disaccaridiche ripetute, spesso presenti nella matrice extracellulare e con funzioni lubrificanti e strutturali nei tessuti animali.

Chitina

La chitina è simile alla cellulosa, ma invece di avere il glucosio come unità base, è composta da unità di N-acetilglucosammina, che è una molecola di glucosio modificata con un gruppo amminico (−NH₂) a cui è legato un gruppo acetile (CH₃CO−).

Come nella cellulosa, i legami tra le unità monomeriche formano catene lineari e rigide, che rendono la chitina resistente e flessibile.

La chitina costituisce l’esoscheletro di crostacei e insetti e la parete cellulare di funghi e lieviti. È insolubile nella maggior parte dei solventi organici e questa caratteristica rende molto difficile il suo utilizzo tal quale e la sua caratterizzazione chimico-fisica.

Questa insolubilità richiede spesso metodi speciali per elaborare e analizzare la chitina.

La sua applicazione campo biomedicale è dovuta a diverse proprietà favorevoli:

  • Biocompatiblità: La chitina è generalmente ben tollerata dai tessuti biologici e risulta inerte nel tratto gastrointestinale dei mammiferi. Questo significa che non causa reazioni avverse significative e non viene degradata o assorbita in modo significativo dall'organismo.

  • Biodegradabilità: La chitina può essere biodegradata da due tipi principali di enzimi: chitinasi, prodotti da vari organismi, inclusi batteri, funghi e alcuni animali, e lisozimi, enzimi che si trovano in molti fluidi corporei, come la saliva e le lacrime, che possono avere attività chitinolitica, anche se la loro azione è meno specifica rispetto a quella delle chitinasi.

  • Modificabilità: La chitina può essere chimicamente modificata per migliorare le sue proprietà, come la solubilità e la capacità di interazione con le cellule, rendendola più adatta per specifiche applicazioni terapeutiche.

Applicazioni

Le applicazioni della chitina includono: scaffold per ingegneria dei tessuti, produzione di rivestimenti, membrane, nanofibre e gel, sistemi di rilascio controllato di farmaci, coadiuvante per la guarigione delle ferite.

Chitosano

Il chitosano è derivato dalla chitina, ma subisce un processo di deacetilazione parziale o totale, che rimuove alcuni dei gruppi acetile (CH₃CO−) dalle unità di N- acetilglucosammina, trasformandole in unità di glucosammina (con un gruppo amminico libero).

È quindi simile alla chitina ma con una maggiore flessibilità chimica dovuta alla presenza di gruppi amminici liberi, che lo rendono idrosolubile a pH acido e ne aumentano la reattività chimica.

Il chitosano è un polimero naturale cationico, il secondo più abbondante in natura dopo la cellulosa. Il processo di ottenimento del chitosano prevede la deproteinizzazione e la demineralizzazione dei gusci di crostacei, tramite una serie di trattamenti sequenziali con acidi e sostanze alcaline, al termine dei quali la chitina estratta è deacetilata tramite un processo di idrolisi alcalina ad alte temperature. Questo processo è relativamente semplice e poco costoso.

Il chitosano è più usato della chitina, in quanto più solubile in soluzioni acquose, cosa che facilita la sua lavorazione e utilizzo in diverse formulazioni. La chitina, al contrario, è insolubile in acqua e in molti solventi comuni, il che limita le sue applicazioni pratiche. Il chitosano può essere facilmente modificato chimicamente per adattarsi a specifiche applicazioni, come la creazione di film, gel, e altre forme di biomateriali. Questa flessibilità lo rende più adatto a una varietà di utilizzi.

Le proprietà chimico-fisiche, la biodegradabilità e la biocompatibilità del chitosano dipendono dal grado di deacetilazione, che tipicamente è compreso tra il 70% e il 90%.

Il chitosano è molto utilizzato in campo biomedico per la sua biocompatibilità e le sue proprietà antibatteriche.

Il chitosano promuove la formazione di un sottile strato di coagulo a contatto col sangue e, grazie a questa sua proprietà, viene impiegato nella cura di ferite.

Il chitosano è ampiamente utilizzato nella medicina e nella farmacologia per applicazioni come il rilascio controllato dei farmaci e la rigenerazione tissutale, grazie alla sua biocompatibilità e biodegradabilità. Inoltre, esso è adatto per fare gli scaffold.

Acido ialuronico

L'acido ialuronico è un polisaccaride della famiglia dei glicosamminoglicani (GAG) costituito da unità ripetitive di acido D-glucuronico e N-acetilglucosammina (lo stesso zucchero che si trova nella chitina). È una molecola lineare non ramificata.

A pH fisiologico i gruppi carbossilici (-COOH) delle unità glucuroniche sono ionizzati (-), conferendo alla molecola di ialuronato elevata polarità e di conseguenza elevata solubilità in acqua → forma una rete in grado di trattenere grandi quantità d'acqua, rendendolo fondamentale nel tessuto connettivo, nella pelle e nelle articolazioni.

Attorno al lungo asse zuccherino dell’acido ialuronico, che funge da struttura portante, possono associarsi molte altre molecole di proteine e zuccheri, formando grossi complessi proteico-polisaccaridici detti proteoglicani.

I complessi di acido ialuronico e proteoglicani vanno a formare una rete intricata all’interno della matrice extracellulare, fondamentale per la struttura e la funzionalità del tessuto connettivo.

I complessi di acido ialuronico e proteoglicani formano aggregati altamente idrofili, che riescono a incamerare una notevole quantità d’acqua, per poi rilasciarla in base al fabbisogno locale. Per questo motivo, l’acido ialuronico si occupa di mantenerne il grado di idratazione, turgidità, plasticità e viscosità del tessuto connettivo. È anche in grado di agire come sostanza cementante e come molecola anti-urto nonché come efficiente lubrificante, per esempio nel liquido sinoviale, prevenendo il danneggiamento delle cellule del tessuto da stress fisici.

L'estrema lunghezza della molecola insieme al suo alto grado di idratazione permette a più polimeri di acido ialuronico di organizzarsi a formare una struttura di tipo reticolare, che crea un'impalcatura molecolare che aiuta a mantenere la forma e il tono del tessuto.

Tra le funzioni dell’acido ialuronico, oltre al contributo al bilanciamento del contenuto acquoso della matrice extracellulare e in alcuni siti specifici, come la cartilagine, il conferimento di proprietà lubrificanti alla matrice, sono di fondamentale importanza l’interazione specifica con proteine di legame, fattori di crescita e proteoglicani e la capacità di essere un soppressore di radicali liberi.

L’acido ialuronico dà origine a gel viscoelastici con proprietà lubrificanti e “shock absorber”. Tuttavia, siccome la stabilità in acqua dei gel a base di acido ialuronico è piuttosto limitata, viene modificato chimicamente in modo da farlo reticolare.

Questo processo determina una diminuzione della solubilità in acqua del polisaccaride per la diminuzione della carica negativa e l’introduzione di molecole idrofobe che, interagendo tra loro, determinano una maggiore rigidità della molecola.

Applicazioni dell’acido ialuronico

Medicina estetica e dermatologia

  • Filler dermici: L'acido ialuronico è utilizzato in iniezioni per ridurre le rughe e riempire i volumi persi nel viso.

  • Trattamento delle cicatrici: Grazie alle sue proprietà idratanti e rigenerative, viene impiegato per migliorare la guarigione di cicatrici chirurgiche e da acne.

  • Idratazione della pelle: Viene utilizzato in creme e sieri per migliorare l'idratazione cutanea, poiché trattiene grandi quantità d'acqua.

Oftalmologia

  • Chirurgia oculare: Utilizzato nelle operazioni di cataratta e nel trapianto di cornea come sostanza viscoelastica per proteggere i tessuti e facilitare la chirurgia.

  • Lacrime artificiali: L'acido ialuronico viene inserito nelle gocce oculari per trattare la secchezza oculare, poiché imita le proprietà lubrificanti delle lacrime naturali.

Ortopedia

  • Viscosupplementazione: Utilizzato nelle iniezioni intra-articolari per trattare l'osteoartrite, in quanto migliora la lubrificazione e l'ammortizzazione delle articolazioni.

  • Riparazione delle cartilagini: Promuove la rigenerazione delle cartilagini articolari danneggiate, contribuendo alla gestione delle malattie degenerative.

Cicatrizzazione e guarigione delle ferite

  • Bende e medicazioni: Utilizzato in medicazioni avanzate per le ferite, in quanto accelera il processo di guarigione e mantiene un ambiente umido favorevole alla rigenerazione tissutale.

  • Trattamento delle ulcere: Viene impiegato nel trattamento delle ulcere diabetiche e da pressione, favorendo la rigenerazione del tessuto epiteliale.

Farmaci e veicolazione di principi attivi

  • Sistema di rilascio di farmaci: L'acido ialuronico può essere utilizzato come vettore per il rilascio controllato di farmaci, grazie alla sua capacità di legarsi a vari composti terapeutici e rilasciarli in modo graduale nel sito d'azione.

  • Nanocarrier: Viene studiato per la veicolazione di farmaci antitumorali, in quanto può indirizzare i farmaci a specifici recettori cellulari.

Ingegneria dei tessuti

  • Scaffold per la rigenerazione tissutale: L'acido ialuronico viene utilizzato come biomateriale per la creazione di scaffold che facilitano la crescita cellulare e la rigenerazione di tessuti come pelle, cartilagine e tessuti muscolari.

  • Supporto per cellule staminali: Serve come matrice per coltivare cellule staminali, supportando la loro differenziazione in vari tipi cellulari per la riparazione tissutale.

  • Tessuti ingegnerizzati: Nella rigenerazione della cartilagine e delle articolazioni, l’acido ialuronico è combinato con altre molecole per creare materiali ibridi che imitano le proprietà del tessuto naturale

Acido alginico

L’acido alginico è un copolimero a blocchi ad alto peso molecolare di acido mannuronico e acido guluronico. Viene estratto dalle alghe brune.  Le sue proprietà dipendono in larga misura dal grado di polimerizzazione e dal rapporto di blocchi di guluronano e mannuronano nelle molecole polimeriche.

Alginati

I derivati dell’acido alginico, detti alginati, sono polimeri carichi negativamente, che hanno la capacità di formare gel, una caratteristica sfruttata in medicina e nell'industria alimentare per creare materiali gelatinosi.

Il gel si forma in presenza di cationi bivalenti, come gli ioni Ca²⁺, Mg²⁺, Sr²⁺, che interagiscono con i blocchi di acido guluronico di catene adiacenti, formando legami ionici a ponte tra le catene di alginato. Il risultato è un reticolo tridimensionale che intrappola l'acqua, formando un gel.

La forza e le proprietà del gel dipendono dal rapporto tra acido mannuronico e acido guluronico, oltre che dalla concentrazione di cationi bivalenti.

Gli alginati ricchi di guluronano formano gel forti e resistenti, che mantengono la loro integrità per tempi più lunghi e hanno un grado di rigonfiamento minore; quelli ricchi di mannuronano formano gel più deboli e più elastici.

Nella struttura del polimero possono esserci sequenze degli stessi blocchi (GG o MM), oppure sequenze eterogenee (GM).

Il network che si forma è descritto come “egg-box model” e dipende dalla frequenza e dalla lunghezza dei blocchi G e dal tipo e concentrazione dei cationi utilizzati.

L'egg-box model è così chiamato perché le catene polimeriche dell'alginato, con i loro cationi bivalenti legati, somigliano a una griglia di confezioni per uova, dove gli ioni calcio occupano le posizioni delle uova nelle cavità, stabilizzando la struttura, e le sequenze di acido guluronico si ripiegano attorno allo ione.

All’interno di questa rete polimerica tridimensionale, viene inglobato e trattenuto un gran numero di molecole d’acqua.

Applicazioni dell’alginato

Le principali applicazioni includono:

  • Scaffold: L'alginato viene utilizzato per creare scaffold tridimensionali che supportano la crescita e la differenziazione delle cellule. Il gel di alginato può essere facilmente modellato per fornire una struttura che promuove la rigenerazione dei tessuti. Negli ultimi anni, l’alginato è stato al centro di vari studi volti a impiegarlo nella produzione di bioinchiostri per biostampa 3D. L'alginato può essere modificato chimicamente per includere fattori di crescita o altre molecole bioattive che stimolano la proliferazione e la differenziazione cellulare, favorendo la rigenerazione dei tessuti.

  • Incapsulamento cellulare in terapie cellulari e medicina rigenerativa: L'alginato è utilizzato per incapsulare cellule, fornendo loro un ambiente protettivo che ne preserva la vitalità e la funzionalità. Infatti, una delle proprietà più importanti dell'alginato è la sua capacità di formare gel in presenza di ioni calcio (o altri cationi divalenti).

Questo processo avviene a temperature fisiologiche, senza la necessità di sostanze chimiche aggressive o calore, preservando così la vitalità delle cellule durante l'incapsulamento. Il gel è anche sufficientemente poroso da consentire lo scambio di nutrienti, gas e metaboliti tra l'interno e l'esterno della capsula, mantenendo però isolate le cellule da componenti più grandi, come anticorpi o altre molecole del sistema immunitario.

Il grado di degradazione dell'alginato può essere modulato regolando la composizione e il contenuto di calcio.

Questo permette di controllare la durata del supporto per le cellule incapsulate, che può essere utile in applicazioni in cui le cellule devono essere rilasciate gradualmente o integrate nel tessuto circostante.

  • Veicolazione di farmaci e fattori di crescita: L'alginato può incapsulare e rilasciare in modo controllato farmaci, fattori di crescita e proteine bioattive, promuovendo la rigenerazione di tessuti danneggiati.

  • Guarigione delle ferite (già in prodotti commerciali): L'alginato è ampiamente usato in prodotti per coadiuvare la guarigione di ferite croniche o ustioni, grazie alla sua capacità di formare un gel idratante a contatto con i fluidi fisiologici, creando un ambiente favorevole alla rigenerazione del tessuto.

  • Matrice per la rigenerazione della cartilagine e del tessuto osseo: può essere combinato con nanoparticelle o altri materiali per migliorare le proprietà meccaniche, fornendo un sostegno temporaneo mentre avviene la rigenerazione.

Materiali compositi

Il termine composito significa letteralmente “consistente di due o più parti distinte”.

Un materiale composito è un materiale eterogeneo, cioè costituito da due o più fasi con proprietà fisiche differenti e insolubili l’una nell’altra, le cui proprietà sono molto migliori di quelle delle fasi che lo costituiscono.

Infatti, è solamente quando i costituenti hanno proprietà fisiche significativamente differenti tra loro, e quindi le proprietà del composito sono significativamente diverse da quelle dei costituenti, che si può parlare di materiale composito.

I compositi sono quindi materiali ingegnerizzati dove, in fase di progetto e sviluppo, vengono impiegati almeno due materiali di partenza per ottenerne un terzo con performance superiori, ad esempio proprietà meccaniche elevate unite a leggerezza del materiale.

In un composito troviamo, tipicamente, due fasi costituenti, diverse macroscopicamente e separate da una superficie chiaramente identificabile detta interfaccia:

  • La matrice, che è una fase continua che avvolge l’altra fase, dispersa in essa. È costituita ad esempio da una resina termoplastica o termoindurente. Spesso le matrici sono polimeriche perché garantiscono bassa densità (e quindi un materiale finale leggero);

  • Il rinforzo, detto anche carica, che è la fase dispersa nella matrice e quindi discontinua. Il rinforzo è spesso molto più rigido e resistente della matrice. Il compito del rinforzo è quello di assicurare al composito rigidezza e resistenza meccanica, assumendo su di sé la maggior parte del carico esterno applicato al materiale. Il rinforzo può essere di due tipologie:

  • Fibre = possono essere lunghe (ovvero continue e allineate) o corte (ovvero discontinue, che possono essere allineate o disposte a random)

  • Particelle

La matrice mantiene anche i materiali di rinforzo in posizione e trasferisce su di essi i carichi dall’esterno; poiché quest’ultimi sono di solito discontinui fra loro, ha funzione di collegamento.

Ci sono diverse tipologie di composito:

  • Matrice + particelle

  • Matrice + fibre corte

  • Matrice + fibre lunghe

Matrice

La matrice ha un’influenza marginale sulle proprietà meccaniche longitudinali del composito (cioè nella direzione delle fibre; queste proprietà sono governate dalle fibre stesse) ma gioca un ruolo determinante per le proprietà a compressione, interlaminari e di taglio nel piano. Inoltre la processabilità ed eventuali difetti nel composito sono strettamente legate alle caratteristiche fisiche e termiche della matrice. Ci sono diverse tipologie di matrici:

  • Matrici polimeriche = possono essere termoplastiche o termoindurenti, sono più usate in ambito strutturale perché si ottengono materiali leggeri e performanti

  • Matrici ceramiche

  • Matrici metalliche

Matrici polimeriche

Le matrici termoindurenti sono le più utilizzate nella produzione di materiali compositi per motivi legati al loro costo, alle loro proprietà e alla semplicità delle tecnologie di trasformazione.

Le resine termoindurenti subiscono un processo di reticolazione a seguito di una reazione chimica, quindi un processo irreversibile. Le resine sono dei polimeri a basso peso molecolare e possono quindi fluire ed essere trattate a temperatura ambiente, mentre la reazione di indurimento avviene di solito a temperatura più alta.

Sono processabili una sola volta ed il loro recupero è possibile solo attraverso macinazione o particolari processi chimici.

Le resine termoindurenti hanno una bassa viscosità, il che consente un'eccellente impregnazione delle fibre e alte velocità di lavorazione.

Le matrici termoplastiche sono utilizzate soprattutto per i compositi a fibre corte.

Le resine termoplastiche hanno pesi molecolari più elevati e possono essere fluidificate e lavorate solo scaldandole oltre una certa temperatura ().

Questo implica, nei processi di trasformazione: (1) una fase di riscaldamento per fare rammollire il polimero e (2) una fase di formatura, sotto pressione, in uno stampo tenuto a temperatura inferiore rispetto a quella di rammollimento del materiale stesso.

Un polimero termoplastico può essere rilavorato più volte.

Le resine termoplastiche presentano dei valori di elevati.

Materiali rinforzanti

Le inclusioni (fibre o particelle) servono generalmente come rinforzo per la matrice.

I rinforzi possono essere classificati sulla base della loro morfologia. In particolare, possiamo suddividerli in:

  • Rinforzi fibrosi

  • Rinforzi particellari

Possono inoltre essere classificati sulla base delle proprietà che impartiscono al composito:

  • Rinforzi strutturali

  • Cariche funzionali

I rinforzi strutturali sono inseriti nella matrice con l’obiettivo di migliorarne le proprietà meccaniche (modulo elastico, resistenza, tenacità a frattura, etc.). Si tratta solitamente di fibre ad alte prestazioni.

Le cariche funzionali vengono aggiunte alle matrici per conferire funzioni specifiche, non strettamente strutturali.

Size effect

L’effetto della dimensione (size effect) ci dice che le fibre hanno generalmente proprietà meccaniche migliori rispetto ai corrispondenti materiali interi (del bulk). Ciò avviene perché minore è il volume minore è la probabilità di trovare difetti o che ci siano difetti di dimensioni critiche. Grazie al size effect, materiali fragili (come vetri e ceramici) in forma di fibra diventano molto più resistenti.

Specifici orientamenti dei legami chimici durante i processi di stiro possono aumentare ulteriormente le proprietà maccaniche nelle fibre.

Tipologie di fibre

  • Naturali = vegetali, minerali, animali

  • Artificiali = ottenute dalla trasformazione di fibre naturali

  • Sintetiche

Nel caso dei compositi vengono considerate fibre come fibre sintetiche di rinforzo unicamente fibre ad alte prestazioni, che sono:

  • Fibre di vetro

  • Fibre di carbonio

  • Fibre di UHMWPE

  • Fibre di Dacron

  • Fibre aramidiche

Fibre di vetro

La composizione chimica delle fibre di vetro commerciali è il risultato di un processo di ottimizzazione di vari parametri quali:

  • proprietà meccaniche ()

  • temperatura di fusione ()

  • filabilità ()

  • Costi (

  • compatibilità con gli altri materiali della filiera

  • impatto ambientale

Fibre di carbonio

Le elevate proprietà meccaniche delle fibre di carbonio derivano dalla particolare struttura cristallina della grafite. Quanto più si riesce ad ottenere una valida struttura cristallina, tanto più si ottiene un materiale dalle caratteristiche notevoli.

Cristallo di grafite: strati sovrapposti (deboli legami di Van der Waals) di piani costituiti da atomi di carbonio (forti legami covalenti) → struttura anisotropa → bisogna disporre opportunamente la struttura cristallina nella direzione voluta (in pratica, per “sfruttare” i legami covalenti).

Struttura atomica

  • La struttura atomica è formata da aggregati di atomi di carbonio organizzati in fogli planari di grafene con simmetria esagonale regolare.

  • Questi fogli di grafene sono impilati secondo modalità diverse rispetto alla grafite: nelle fibre di carbonio i piani possono essere leggermente disallineati o ripiegati, dando origine a una struttura detta turbostratica o, in alcuni casi, più ordinata (grafitica).

  • La grafite è caratterizzata da legami deboli tra i fogli, mentre nelle fibre di carbonio la disposizione e l’orientamento dei fogli conferiscono elevata resistenza meccanica e rigidità.

Le fibre di carbonio vanno trattate perché non si deteriorino a contatto con la matrice (trattamenti chimici: wet oxidation, dry oxidation, anodic oxidation).

La fibra di carbonio (CF) è un materiale leggero, flessibile e ad alta resistenza.

A causa della loro bassa densità (da 1,7 a 2,1 g/cm3) e delle elevate proprietà meccaniche (modulo elastico fino a 900 GPa e resistenza fino a 4,5 GPa) i CF sono utilizzati nei compositi in una varietà di applicazioni che richiedono leggerezza ed elevate proprietà meccaniche.

Fibre UHMWPE

Le fibre UHMWPE possiedono un modulo elastico e una resistenza elevati, oltre a una spiccata leggerezza; inoltre, resistono all'abrasione e non assorbono l'acqua.

Tuttavia, le proprietà chimiche delle fibre UHMWPE sono tali che poche resine si legano bene alle superfici delle fibre, e quindi le proprietà strutturali attese dalle proprietà delle fibre spesso non sono pienamente realizzate in un composito. Il basso punto di fusione delle fibre (circa 147 °C) limita i processi produttivi ad alta temperatura

Le fibre di polietilene vengono utilizzate per rinforzare resine acriliche per applicazioni in odontoiatria o per realizzare protesi discali intervertebrali. Sono state utilizzate anche per la fabbricazione di dispositivi atti a trattare patologie e deficit a carico dei legamenti.

Fibre Dacron/PET

Dacron è il nome comunemente usato per indicare le fibre di (polietilene tereftalato - PET). Queste fibre hanno diversi usi in campo biomedicale, la maggior parte nella chirurgia cardiovascolare per interventi sulle arterie.

Le fibre di Dacron sono state impiegate anche in ortopedia per la fabbricazione di tendini o legamenti artificiali, come fibre o tessuti da soli, o incorporati in diverse matrici in compositi.

Altre applicazioni proposte includono protesi di tessuti molli, dischi intervertebrali e applicazioni di chirurgia plastica.

Fibre aramidiche

Con il termine fibre aramidiche si intendono fibre costituite da lunghe catene poliammidiche sintetiche in cui almeno 85% dei legami ammidici sono attaccati direttamente a due anelli aromatici.

Il kevlar è una fibra sintetica aramidica. La sua struttura aromatica e l’elevato ordine strutturale conferiscono un’alta cristallinità al kevlar; ne risulta una fibra dalle caratteristiche fisiche-meccaniche eccezionali, come bassa densità, elevato modulo a trazione, elevata resistenza a trazione, rottura non catastrofica ma per sfibratura o sfilacciatura (splitting) – cosa che conferisce elevate energie di frattura – ed elevatissima resistenza alla temperatura, che permette un uso del kevlar  anche a temperature di lavoro di 350°C.

I principali svantaggi del Kevlar sono i bassi valori della resistenza a compressione, i bassi valori delle proprietà meccaniche a 90°.

Il kevlar è molto usato nei giubbotti antiproiettile, grazie all’elevata resistenza a impatto.

Micromeccanica

La micromeccanica è la prima parte dello studio del materiale composito che considera nel dettaglio le interazioni, a livello microstrutturale, fra i materiali costituenti. La micromeccanica consente di rappresentare un materiale eterogeneo con un materiale omogeneo equivalente, usualmente anisotropo, a partire dalle proprietà di matrice e rinforzo e dalle rispettive frazioni volumetriche.

La micromeccanica serve per predire:

  • Costanti elastiche (es. modulo di Young, coefficiente di Poisson) → buon accordo delle equazioni della micromeccanica coi dati sperimentali;

  • Resistenza del composito → risultati meno accurati

Le equazioni della micromeccanica sono state sviluppate per:

  • Compositi a fibre lunghe

  • Compositi a fibre corte

I materiali compositi sono la prima classe di materiali che viene progettata insieme al manufatto.

Si tratta di un modo di procedere molto diverso, ad esempio, da quello che si usa coi metalli, dove si sceglie una certa lega, quindi si procede al progetto della geometria del pezzo.

Coi materiali compositi si scelgono contemporaneamente le fibre, la matrice, le relative quantità (frazione di volume) e la geometria del pezzo. In fase di progetto si studia la combinazione di vari tipi di fibre con vari tipi di matrice.

I materiali compositi rinforzati con fibre allineate, lunghe o corte che siano, sono materiali anisotropi, cioè con proprietà meccaniche e termiche che dipendono dalla direzione.

Analisi di laminati compositi

In molte applicazioni ingegneristiche le proprietà trasversali dei compositi unidirezionali sono ritenute insoddisfacenti per le specifiche applicazioni.

Questa limitazione viene superata utilizzando i laminati, ossia compositi formati da almeno due lamine unidirezionali (o tessuti) legate fra loro in modo tale da costituire un elemento strutturale unico.

Un laminato si ottiene sovrapponendo più lamine nella direzione Z (la direzione dello spessore).

Due lamine sovrapposte con fibre orientate secondo angoli diversi si deformano in misura diversa nelle due direzioni avendo rigidezze diverse nelle due dimensioni.

Percentuali di rinforzo, frazione volumetrica e frazione ponderale nei materiali compositi

Uno dei parametri più importanti che determinano le proprietà meccaniche e funzionali dei materiali compositi è il rapporto relativo tra la matrice e il materiale di rinforzo (ad esempio le fibre). Questo rapporto può essere espresso principalmente in due modi:

  • Frazione ponderale (weight fraction, W): rapporto tra la massa di un componente e la massa totale del composito.

  • Frazione volumetrica (volume fraction, V): rapporto tra il volume di un componente e il volume totale del composito.

Definizioni

Per un composito costituito da fibre e matrice, si definiscono:

  • Frazione volumetrica delle fibre:

  • Frazione volumetrica della matrice:

dove , e sono rispettivamente i volumi delle fibre, della matrice e del composito. La somma delle frazioni volumetriche è sempre pari a 1:

Analogamente, per le frazioni ponderali si ha:

dove , e sono le masse delle fibre, della matrice e del composito, con:

Importanza e uso delle frazioni ponderali e volumetriche

  • Le frazioni ponderali sono comunemente utilizzate nelle fasi di fabbricazione, poiché la massa è più facile da misurare e controllare durante la produzione.

  • Le frazioni volumetriche sono invece quelle maggiormente impiegate nelle analisi teoriche e nella progettazione, perché le proprietà meccaniche del composito dipendono principalmente dal volume occupato dalle fibre e dalla matrice.

Conversione tra frazione ponderale e volumetrica

Per passare da una frazione all’altra è necessario conoscere le densità dei singoli componenti e del composito. La densità del composito può essere calcolata come:

dove e sono le densità delle fibre e della matrice. Le frazioni ponderali e volumetriche sono collegate dalle seguenti relazioni:

Queste formule permettono di convertire facilmente frazioni ponderali in volumetriche e viceversa, tenendo conto delle diverse densità dei materiali.

Limiti pratici e aspetti di processo

La massima frazione volumetrica delle fibre in un composito non è illimitata, ma dipende da diversi fattori pratici:

  • Il processo di fabbricazione adottato

  • Il tipo di resina utilizzata come matrice

  • La forma e la sezione delle fibre

  • Il modo in cui le fibre si impaccano nello spazio

È fondamentale che le fibre siano completamente avvolte dalla matrice per garantire un efficace trasferimento delle sollecitazioni meccaniche. In caso contrario, la presenza di vuoti o imperfezioni può compromettere significativamente le proprietà meccaniche del composito finito.

Applicazioni

In generale, poiché le caratteristiche meccaniche delle fibre sono molto maggiori di quelle della resina, maggiore è la loro frazione volumetrica e più elevate saranno le proprietà meccaniche del composito risultante.

In pratica, esistono dei limiti, poiché è necessario che le fibre siano completamente avvolte dalla resina: solo in questo modo la matrice riesce a trasferire completamente la sollecitazione alla fibra.

Il processo di fabbricazione può lasciare imperfezioni e microvuoti tra fibra e matrice, tali da degradare le proprietà del prodotto finito.

Generalmente per compositi di impiego comune si impiegano frazioni volumetriche di fibra intorno al 30-40%. Nell’industria aerospaziale, dove sono impiegati processi più sofisticati e precisi, si può arrivare con successo fino a frazioni volumetriche pari al 70%.

Anche la geometria delle fibre in un composito è molto importante, poiché le fibre hanno le loro elevate proprietà meccaniche (modulo elastico, resistenza) in direzione longitudinale.

Ciò porta a proprietà fortemente anisotrope dei compositi, a cui si può ovviare realizzando dei laminati.

Effetti della geometria e anisotropia

Le fibre possiedono elevate proprietà meccaniche soprattutto nella direzione longitudinale. Questo porta a un comportamento fortemente anisotropo dei compositi, cioè le proprietà variano in base alla direzione considerata. Per ovviare a questo problema, si realizzano spesso laminati con fibre orientate in direzioni diverse, in modo da bilanciare le caratteristiche meccaniche complessive.

Il modulo di elasticità per fibre lunghe unidirezionali

Il modulo è una misura della rigidezza del materiale. Un materiale rigido, ovvero con un modulo di Young alto, tende maggiormente a mantenere sotto carico la sua forma e dimensione:

Avremo due moduli di Young: uno in direzione longitudinale () e uno di direzione trasversale ()

La teoria micromeccanica ci dice che

Regola delle miscele - Modulo di Young in direzione longitudinale

La regola delle miscele è un principio utilizzato per stimare le proprietà meccaniche di materiali compositi, derivandole come media pesata delle proprietà dei singoli costituenti, in base alle loro frazioni volumetriche.

In particolare, per un composito formato da una matrice e fibre di rinforzo, il modulo di elasticità longitudinale si calcola come:

dove:

  •  modulo elastico della fibra

  •  modulo elastico della matrice

  •  sono rispettivamente le frazioni volumetriche di fibre e matrice, con .

Questa regola si basa sull'assunzione che ci sia un'adesione perfetta tra le fibre e la matrice e che il composito si comporti come un materiale omogeneo macroscopico. Ad esempio, nel caso del modulo elastico longitudinale (non per quello trasversale), la regola delle miscele fornisce una buona stima del comportamento del composito sotto carico. 

Regola delle miscele inversa - Modulo di Young in direzione trasversale

La regola delle miscele inversa è un principio utilizzato per stimare il modulo elastico trasversale (il modulo di taglio di un composito unidirezionale). In questi casi il modulo elastico trasversale si calcola con la regola delle miscele inversa secondo la formula:

dove:

  •  è il modulo elastico trasversale delle fibre,

  •  è il modulo elastico trasversale della matrice,

  •  e sono le frazioni volumetriche di fibre e matrice (con ).

Biocompatibilità nei compositi

Come per tutti i biomateriali da impianto, la questione della biocompatibilità (risposta dei tessuti al materiale) è fondamentale anche per i compositi. Essendo formati da due o più materiali che operano in sinergia, ai compositi è associata una maggiore probabilità di causare reazioni tissutali avverse.

Il danneggiamento e l’usura di un impianto in materiale composito può esporre fibre o particelle all'ambiente biologico circostante.

I detriti particolati prodotti dall’usura del composito possono avere dimensioni microscopiche, dunque siamo su scala cellulare. Questo fatto, potenzialmente, rende ancora più pericolosi tali detriti.

La maggior parte dei compositi biomedicali ha matrici polimeriche, per lo più termoplastiche, bioriassorbibili o meno.

Le matrici più comuni sono polimeri sintetici non assorbibili. Tra questi, ricordiamo il poli(etere etere chetone) (PEEK), il polietilene ad altissimo peso molecolare (UHMWPE), politetrafluoroetilene (PTFE), poli(metilmetacrilato) (PMMA).

Queste matrici, rinforzate con fibre di carbonio, fibre di polietilene e materiali ceramici, sono state utilizzate in ortopedia, odontoiatria e come cementi ossei.

Gli impianti compositi riassorbibili, invece, possono essere prodotti a partire da polimeri riassorbibili come polimeri come PLA e PGA. Per la maggior parte delle applicazioni è necessario rinforzare questi polimeri per ottenere un'adeguata resistenza meccanica.

Diversi materiali ceramici sono stati utilizzati per rinforzare i compositi biomedici. La forma preferita per questo rinforzo è il particolato.

Bioceramici e biovetri vengono aggiunti a matrici polimeriche per favorire l’osteointegrazione (in caso di ceramici bioattivi), migliorando al contempo le proprietà meccaniche dell’impianto.

Bioceramici e biovetri possono essere impiegati pertanto sia come elementi di rinforzo in senso stretto, sia come elementi funzionali, per migliorare la performance biologica dell’impianto.

Biomateriale

Un biomateriale è “una sostanza non vivente utilizzata nella fabbricazione di un dispositivo medico che ha in qualche punto un'interfaccia con un tessuto vivente” oppure “un materiale che si intende interfacciare con i sistemi biologici allo scopo di valutare, monitorare, trattare, accrescere, sostituire o facilitare la rigenerazione di ogni tessuto, organo o funzione del corpo umano”.

È evidente che tale definizione identifica i biomateriali non in relazione alle loro proprietà, ma alle finalità d'uso.

Biocompatibilità

È la capacità di un materiale di determinare, da parte di un sistema vivente, una reazione favorevole alla sua presenza in una specifica applicazione.

Biocompatibilità: dispositivi impiantabili a lungo termine

Abilità del dispositivo di svolgere la sua specifica funzione, con il desiderato grado di incorporazione nel tessuto ospite, senza provocare alcun effetto locale o sistemico indesiderato in tale tessuto.

Biocompatibilità: scaffold e matrici per la medicina rigenerativa

Abilità di comportarsi come substrato in grado di supportare l’appropriata attività cellulare, includendo la facilitazione di sistemi di segnali molecolari e meccanici in modo da ottimizzare la rigenerazione dei tessuti, senza provocare alcun effetto locale o sistemico indesiderato nell’ospite.

Essa è il requisito principale di qualsiasi materiale utilizzato nel corpo.

A meno che non sia progettato per degradarsi in vivo, il materiale deve offrire una resistenza a lungo termine all'attacco biologico, e deve essere in grado di svolgere la propria funzione specifica senza interferire o interagire in modo dannoso con le attività fisiologiche dell’organismo.

Non è banalmente la presenza/assenza di reazioni biologiche negative, ma la valutazione in base al soddisfacente funzionamento in una specifica applicazione.

È un problema complesso, poiché sia la composizione che la scala dimensionale del biomateriale possono influenzare la risposta cellulare o infiammatoria. Materiali considerati biocompatibili in forma massiva possono infatti scatenare una risposta infiammatoria se diventano abbastanza piccoli da essere ingeriti da una cellula infiammatoria, come un macrofago. La generazione di detriti associata al carico meccanico o alla corrosione dell'impianto può causare una risposta infiammatoria acuta e il fallimento prematuro dell'impianto.

La biocompatibilità dei dispositivi, e quindi quella dei loro componenti, deve essere acquisita con certezza (testata e documentata) e poi approvata dagli organismi deputati prima della commercializzazione e dell’utilizzo in ambito clinico.

La valutazione della biocompatibilità è piuttosto complessa, poiché le variazioni nella risposta immunitaria, nel livello di attività e nella salute generale dei singoli pazienti possono essere considerevoli.

La degradazione in vivo degli impianti è spesso innescata dall'effetto combinato del carico meccanico e dell'ambiente. Per questo motivo, la biocompatibilità di un materiale spesso non è nota fino a quando il materiale non viene utilizzato nel suo ambiente clinico previsto.

Compatibilità

La compatibilità è un concetto più generale della già discussa compatibilità biologica o appunto biocompatibilità, che riguarda tutti gli aspetti di natura chimica e biologica che possono indurre alterazioni dannose sia per i tessuti naturali, sia per i materiali impiegati nella costruzione dei dispositivi a contatto coi tessuti.

La compatibilità, nel suo complesso, è un insieme di proprietà legate all’interazione fra dispositivo e organismo.

Ha fondamentalmente tre aspetti:

1. Compatibilità morfologica = Aspetto che riguarda le interfacce dimensionali, quelle di forma e quelle relative alle masse.

2. Compatibilità funzionale = Aspetto che riguarda il ruolo svolto dalla protesi o dall’organo artificiale rispetto al ruolo atteso. Non sempre un dispositivo artificiale si comporta esattamente come l’originale che deve sostituire. Talvolta non ha tutte le caratteristiche funzionali, talvolta ne ha alcune in più. Tali difformità devono essere valutate attentamente al fine di minimizzare eventuali risposte non desiderate da parte dell’organismo ospite;

3. Biocompatibilità =  Nella progettazione di un dispositivo occorre tenere in opportuna considerazione i citati aspetti di compatibilità che purtroppo, quasi sempre, non sono noti in termini quantitativi.

Ciò deriva dal fatto che l’interazione tra dispositivo e organismo è un fenomeno dinamico in quanto l’organismo, essendo una struttura biologica, evolve nel tempo.

Il modo di evolvere, e quindi di modificare i rapporti interattivi con il dispositivo medico, non è facilmente prevedibile né dalla fisiologia, né dalla fisiopatologia, poiché la sostituzione di un organo o di un tessuto con un dispositivo artificiale conduce a situazioni nuove non ancora descritte. È possibile solo conoscere le condizioni iniziali dei fenomeni dinamici interattivi, cioè quelle che si verificano al momento dell’impianto della protesi. Prevedere l’evoluzione delle condizioni di interfaccia è estremamente difficile, se non a livello probabilistico quando si disponga di un’adeguata esperienza clinica.

Un prerequisito per l’immissione in commercio dei dispositivi medici consiste nella dimostrazione della conformità ai requisiti essenziali di sicurezza e prestazione, inclusa la dimostrazione del favorevole rapporto rischio/beneficio.

Valutazione della biocompatiblità

Come abbiamo visto, sfortunatamente non si hanno a disposizione delle definizioni operative precise di biocompatibilità e non ci sono dei metodi per effettuare delle misure, poiché la biocompatibilità non è una grandezza misurabile.

Nonostante questo, rimane la necessità di stabilire delle procedure che possano indirizzare nella scelta e nella progettazione di un materiale e/o dispositivo per una data applicazione.

Devono essere presi in considerazione e valutati due aspetti fondamentali:

  • la risposta della cellula ospite, che può essere:

  • locale o sistemica = a seconda che coinvolga il solo sito interessato o anche altri distretti dell’organismo

  • Immediata o tardiva = a seconda del tempo impiegato da tale risposta per manifestarsi. Una risposta immediata è di solito legata a caratteristiche superficiali del materiale, mentre quella tardiva a proprietà di massa

  • la risposta del materiale

Ambiente biologico

Ambiente molto aggressivo rispetto alle condizioni esterne;

Elevata attività chimica combinata con diversi gradi di stress meccanici;

Mantiene condizioni stabili e relativamente costanti, nonostante le variazioni nell'ambiente esterno. Questo include la regolazione di parametri fisici e chimici come la temperatura, il pH e la concentrazione di vari elementi e molecole nel corpo;

Ambiente ricco di fluidi salini, caldi e in continuo movimento.

Test di biocompatibilità

Quando non è possibile dimostrare l’equivalenza tra il nuovo dispositivo e quello analogo in commercio, si dovrà eseguire una serie di studi di biocompatibilità sul nuovo dispositivo medico in base al tipo e alla durata di contatto previsto con l’organismo;

I test di biocompatibilità sono svolti per la caratterizzazione della risposta fisica, chimica, tossicologica e biologica del materiale e devono includere gli standard applicabili, i protocolli di test, l’analisi dei dati ed i risultati;

I test devono essere condotti sul dispositivo medico finito e sterilizzato (se fornito in forma sterile) in conformità alle norme armonizzate della serie ISO 10993 e devono essere selezionati sulla base dell’utilizzo finale del dispositivo.

La scelta dei test di biocompatibilità da effettuare deve considerare:

  • la composizione chimica dei materiali, la loro potenziale tossicità e il loro profilo di rilascio;

  • le condizioni di esposizione;

  • la natura, il grado, la frequenza e la durata dell’esposizione del dispositivo medico e dei suoi costituenti sul corpo;

  • disponibilità di dati preesistenti sui materiali del dispositivo.

I test di biocompatibilità vengono scelti in base alla categorizzazione del materiale, in base alla natura e alla durata del contatto con il corpo del paziente.

Categorie basate sulla durata del contatto con il corpo umano:

  • Esposizione limitata (fino a 24 ore)

  • Esposizione prolungata (da 24 ore a 30 giorni)

  • Contatto permanente (superiore ai 30 giorni)

Categorie basate sulla natura dei dispositivi medici:

  • Dispositivi non invasivi

  • Dispositivi a contatto con le superfici (pelle, mucose, superfici lese)

  • Dispositivi comunicanti con l’esterno (circolo sanguigno indiretto, tessuti/ossa/dentina). Sebbene siano in contatto con il sangue, sono considerati "indiretti" perché non rimangono nel corpo a lungo termine.

  • Dispositivi impiantabili (in contatto con tessuti/ossa, sangue)

Valutazione della sicurezza biologica di un componente

La valutazione della sicurezza biologica di un componente e/o di un dispositivo si realizza mediante una serie di prove che comprendono:

  • Test in vitro o ex-vivo (con cellule e tessuti di origine animale e/o umana)

  • Rapidi e spesso di facile esecuzione

  • Economici

  • Scarsa rappresentazione delle condizioni fisiologiche reali

  • Ottimi come primo step/screening preliminare

  • Test in vivo su animali

  • Pur trattandosi sempre di modelli, costituiscono una migliore approssimazione dell’ambiente fisiologico umano

  • Protocolli molto impegnativi (Animal Welfare Act)

  • Possono essere anche molto costosi, in funzione del modello animale impiegato

  • Secondo passo prima dell'uso clinico

  • Test clinici

  • Valutazione umana preliminare

  • Evoluzione clinica (follow-up)

  • Analisi retrospettiva

Sterilizzazione

I materiali da testare devono essere adeguatamente sterilizzati, per evitare il fallimento dei test di biocompatibilità a causa di eventuali contaminazioni microbiche. Le metodiche di sterilizzazione devono essere scelte con attenzione, considerando il tipo di biomateriale e le sue proprietà fisico-chimiche, per evitare che la sterilizzazione ne alteri le caratteristiche.

Tra le varie possibilità a disposizione, citiamo:

  • Sterilizzazione a vapore (autoclave): utilizza vapore saturo ad alta pressione (120-135°C) per uccidere microrganismi. Bastano 15-20 minuti per ottenere la sterilizzazione desiderata: il vapore acqueo, saturo sotto pressione (calore umido), ha infatti un alto potere penetrante. È una tecnica economica e altamente efficace. Non è adatta per biomateriali sensibili al calore o all'umidità, come alcuni polimeri, impianti o tessuti biologici.

  • Sterilizzazione a secco: la sterilizzazione avviene in stufa a secco portata a temperatura pari o superiore a 160°C (tipicamente, 160-180°C). Il trattamento è più lungo (due o più ore) poiché il calore secco è meno efficace del calore umido nell’eliminare i microorganismi. L’apparato è più economico, ma la procedura non è adatta per materiali sensibili al calore, può causare degradazione in polimeri o alterare materiali compositi.

  • Sterilizzazione mediante radiazioni ionizzanti (raggi gamma o fascio di elettroni, noto come E-beam): ha il vantaggio di non richiedere calore o umidità e penetra efficacemente materiali densi e confezionati. Tuttavia, l’apparato è costoso e la procedura può degradare alcuni materiali polimerici, causando fragilità o alterazioni delle proprietà meccaniche.

  • Sterilizzazione con ossido di etilene (EO): l'ossido di etilene è un gas utilizzato per sterilizzare materiali sensibili al calore e all'umidità. È efficace su una vasta gamma di materiali e compatibile con molti tipi di polimeri senza degradare il materiale. È necessario monitorare i residui di EO sul materiale, poiché può essere tossico. Inoltre, richiede tempi di degasaggio piuttosto lunghi.

  • Esposizione a lampade UV: la luce ultravioletta, in particolare la radiazione UV-C (lunghezza d'onda di circa 200-280 nm), è in grado di distruggere i microrganismi, come batteri, virus e funghi. Poiché non vengono utilizzati agenti chimici, non ci sono residui tossici che possono interferire con i test di citotossicità. La sterilizzazione avviene in tempi relativamente brevi, a seconda dell'intensità della lampada e della distanza dal materiale da sterilizzare.

Non comporta calore, quindi è sicuro per materiali sensibili alle alte temperature, come alcuni polimeri e biomateriali. Tuttavia, le radiazioni UV sono efficaci solo per la sterilizzazione di superfici, non è adatta per materiali con geometrie complesse, le aree non direttamente esposte alla luce UV potrebbero non essere adeguatamente sterilizzate.

Test cellulari in vitro

I test cellulari in vitro per valutare la biocompatibilità di materiali si dividono principalmente in tre tipologie: test diretti, test indiretti e test di eluato. Ecco una descrizione chiara di ciascuno:

  • Test diretti: le cellule vengono poste a diretto contatto con il materiale da testare. Questo permette di osservare l’effetto immediato del materiale sulla morfologia, adesione, proliferazione e vitalità cellulare. È utile per valutare la tossicità e l’interazione fisica tra cellule e materiale.

  • Test indiretti: il materiale non viene messo a contatto diretto con le cellule, ma viene posto in coltura con il mezzo di coltura per permettere il rilascio di eventuali sostanze tossiche o degradate. Successivamente il mezzo di coltura, ormai “condizionato” dal materiale, viene trasferito alle cellule. In questo modo si valuta l’effetto di eventuali sostanze rilasciate dal materiale senza un contatto fisico diretto.

  • Test di eluato: è una variante del test indiretto in cui il materiale viene immerso in un liquido (eluato) per un tempo definito a temperatura controllata, per estrarre le sostanze solubili o mobili. L’eluato così ottenuto viene poi applicato alle cellule per valutarne la tossicità o altri effetti biologici. Questo test è particolarmente utile per simulare il rilascio di sostanze in ambiente biologico.

Questi test permettono di valutare la biocompatibilità e la sicurezza dei materiali in modo progressivo, dal contatto diretto alle sostanze rilasciate, garantendo una valutazione completa in vitro prima di passare a test in vivo.

Test diretti

I test diretti valutano l'interazione diretta tra le cellule e il materiale o il composto da testare, cioè le cellule vengono coltivate a contatto diretto col campione.

  • Misurano direttamente gli effetti tossici del materiale sulle cellule in coltura, che possono modificare la propria morfologia, staccarsi dalla piastra di coltura, andare in sofferenza o morire.

  • Rientrano in questa categoria anche i test di adesione cellulare, che valutano la capacità delle cellule di attaccarsi a un materiale.

  • Questi test forniscono informazioni sulle interazioni immediate cellule/materiale.

Test di eulato

I test di eluato (o cessione) valutano l'effetto del materiale sulle cellule attraverso un medium di coltura, piuttosto che un contatto diretto.

  • Il materiale viene prima incubato da solo in un opportuno solvente; l’incubazione avviene in condizioni e tempi stabiliti dalla norma, per far sì che il materiale rilasci specie chimiche e si degradi.

  • In un secondo momento, in quell’eluato vengono coltivate le cellule per valutare gli effetti delle sostanze rilasciate sulla vitalità, la proliferazione e il metabolismo cellulare.

  • Questi test possono riflettere gli effetti a lungo termine o l'impatto dei prodotti di degradazione.

Un esempio di test indiretto è il test di diffusione su Agar.

Le cellule vengono coltivate su una piastra di agar, e il materiale da testare viene posizionato sopra l’agar. Le sostanze rilasciate dal materiale si diffondono nell’agar e interagiscono con le cellule.

L’esposizione delle cellule alla sostanza tossica o presunta tale può variare ampiamente nel tempo in relazione con le necessità sperimentali e con le caratteristiche della sostanza e delle cellule stesse.

Si possono distinguere, in linea generale:

  • Test a breve termine (o rapidi), la cui durata è in genere di poche ore o anche soltanto di frazioni di ora, usati in particolare per valutare alterazioni funzionali delle cellule o danni metabolici che causano rapidamente letalità

  • Test a lungo termine (o lenti), di durata superiore, anche di alcuni giorni, che intendono verificare in particolare la sopravvivenza nel tempo e la capacità di replicazione

Test di citotossicità

I test di citotossicità valutano se un materiale o una sostanza (o l’eluato da essi prodotto) provoca danni o morte alle cellule.

Esistono diversi kit commerciali, ognuno con la sua procedura specifica, che permettono di stimare gli effetti negativi su parametri cellulari come la vitalità e la crescita cellulare, l’efficienza di formazione di colonie, il rilascio di enzimi, il danno al DNA.

Tra i test commerciali, citiamo:

  • Valutazione della vitalità cellulare con trypan blue = Le cellule vengono coltivate con l’eluato del materiale per un certo periodo di tempo, quindi si aggiunge il colorante trypan blue, che permette di distinguere le cellule vitali da quelle morte. In queste ultime, infatti, l’alterata permeabilità di membrana permette la penetrazione del colorante all’interno della cellula stessa: viste al microscopio, appariranno di un blu intenso. A questo punto, le cellule potranno essere conteggiate mediante camere contaglobuli.

  • Test del rosso neutro (NR uptake):

  • Questo saggio citotossico si basa sulla capacità delle cellule vitali di assorbire e trattenere il colorante rosso neutro, che si accumula nei lisosomi (organelli cellulari coinvolti nella degradazione di molecole) delle cellule vive, che hanno quindi normale funzionalità delle membrane, mentre le cellule morte non presentano tale accumulo.

  • La valutazione analitica si effettua tramite spettrofotometro. Poiché le cellule danneggiate o morte non riescono a trattenere il colorante, l'intensità del colore (misurata in seguito) è ridotta o assente.

  • Devono essere sempre presenti, come riferimento, un controllo negativo – un materiale noto per essere non citotossico (si può usare anche il solo terreno di coltura, oppure HDPE dovendo testare dei polimeri) – e un controllo positivo, citotossico.

  • Test MTT (o test XTT) = Entrambi i test sono molto utilizzati per valutare la vitalità cellulare e per determinare se una sostanza chimica, farmaco o trattamento ha effetti citotossici sulle cellule. Il test MTT è basato sulla capacità delle cellule metabolicamente attive di trasformare dei sali di tetrazolio in formazano, una forma colorata che può essere misurata spettrofotometricamente.

Il test XTT è analogo, in linea di principio, all’MTT, nel senso che entrambi i saggi si basano sulla capacità delle cellule vitali di ridurre sali di tetrazolio in forme colorate; l’XTT usa un diverso composto tetrazolico, il cui formazano risultante è solubile in acqua. L’XTT viene preferito in molti casi per la sua maggiore praticità e sensibilità, soprattutto in studi dove la rapidità del test è importante o dove è necessaria una maggiore precisione.

  • Test di citotossicità Alamar Blue: si basa sulla capacità delle cellule metabolicamente attive di ridurre la resazurina, un composto non fluorescente di colore blu, in resorufina, che è fluorescente e di colore rosa. Questa conversione avviene grazie all'attività metabolica delle cellule vive, in particolare attraverso il sistema degli enzimi mitocondriali. La quantità di resorufina prodotta è direttamente proporzionale al numero di cellule vive e alla loro attività metabolica. La trasformazione può essere misurata sia tramite spettrofotometria (assorbanza), sia tramite fluorimetria (fluorescenza), rendendo il test molto versatile.

Percentuale di cellule morte per dichiarare un materiale citotossico

Per dichiarare un materiale citotossico in test cellulari in vitro, la soglia comunemente accettata è una vitalità cellulare inferiore al 70% rispetto al controllo negativo, cioè una morte cellulare superiore al 30% indica potenziale citotossicità.

In dettaglio:

  • Se la percentuale di cellule vive è ≥ 70%, il materiale è considerato non citotossico.

  • Se la vitalità scende sotto il 70%, si considera che il materiale abbia un effetto citotossico significativo.

  • In termini di morte cellulare, ciò corrisponde a oltre il 30% di cellule morte o danneggiate.

  • Valutazioni qualitative basate su morfologia cellulare considerano citotossico un materiale con oltre il 50% di lisi cellulare o alterazioni marcate.

Quindi, per superare i test di biocompatibilità secondo standard come ISO 10993-5, un materiale deve mantenere almeno il 70% di vitalità cellulare nelle colture in vitro.

Test di citocompatibilità

Come abbiamo visto, i test di citotossicità hanno lo scopo di valutare quanto una sostanza, un materiale o un trattamento sia tossico per le cellule.

I risultati indicano la percentuale di cellule vive o morte dopo l'esposizione al materiale: se molte cellule muoiono, il materiale è considerato citotossico (quantificheremo che cosa significa molte); questi test stimano quindi la morte o il danno cellulare.

I test di citocompatibilità valutano se un materiale o una sostanza è adatto a supportare la crescita, la proliferazione o le funzioni cellulari senza provocare danni. L’obiettivo è dimostrare che il materiale è biocompatibile con le cellule (=citocompatibile), ovvero non interferisce negativamente con il loro funzionamento.

Il materiale viene messo a contatto con le cellule e si osserva la loro proliferazione, differenziazione o adesione. Si misurano parametri come la crescita cellulare, la morfologia, la differenziazione, o la risposta infiammatoria per verificare che il materiale non alteri negativamente il comportamento cellulare.

In sintesi, mentre i test di citotossicità si concentrano sugli effetti dannosi di una sostanza, i test di citocompatibilità sono volti a verificare se un materiale è adatto per essere utilizzato in contatto con i tessuti biologici, promuovendo o mantenendo la funzionalità cellulare senza causare tossicità.

Tra i test di citocompatibilità, citiamo:

  • Test di adesione cellulare = valuta la capacità delle cellule di aderire alla superficie del materiale. L'adesione è un indicatore cruciale della citocompatibilità, poiché le cellule devono aderire per poter proliferare e differenziarsi.

Le cellule vengono seminate sul materiale e, dopo un certo periodo di incubazione, il numero di cellule che aderiscono alla superficie viene quantificato tramite colorazione o altri metodi.

  • Test di proliferazione cellulare = Misurano la capacità delle cellule di crescere e dividersi in presenza del materiale. Se il materiale è citocompatibile, le cellule continueranno a proliferare normalmente.

  • Test di differenziazione cellulare = Valutano se un materiale può supportare la differenziazione cellulare, soprattutto in ambito di ingegneria tissutale, dove è importante che le cellule non solo sopravvivano, ma si specializzino in cellule di un tessuto specifico.

Le cellule staminali o progenitrici vengono coltivate sul materiale, e la differenziazione in cellule specializzate (ad esempio, osteoblasti per tessuto osseo o condrociti per cartilagine) viene valutata con saggi specifici.

  • Test di morfologia cellulare = Valutano i cambiamenti morfologici delle cellule in contatto con il materiale. La morfologia cellulare anomala può indicare stress cellulare o citotossicità.

Le cellule sono coltivate sul materiale, e la loro forma e struttura vengono osservate al microscopio. L'aspetto delle cellule viene confrontato con quello delle cellule su una superficie di controllo compatibile.

  • Test di rilascio di citochine o risposta infiammatoria = Le citochine, piccole proteine di segnale che giocano un ruolo cruciale nella comunicazione intercellulare, sono cruciali nella stimolazione e modulazione della risposta immunitaria, attivando e reclutando cellule immunitarie nei siti di infezione o infiammazione.

  • Test di Migrazione Cellulare (Scratch Assay) = Il saggio di migrazione cellulare o scratch test (anche noto come wound healing assay) è una tecnica in vitro utilizzata per studiare la migrazione delle cellule, un processo fondamentale in fenomeni come la guarigione delle ferite, lo sviluppo embrionale, e la progressione tumorale (metastasi).

Altri test cellulari:

  • Test di emocompatibilità = Valutano la compatibilità di un materiale con il sangue, misurando la risposta ematologica e la formazione di trombi. Fondamentali per dispositivi medici a contatto con il sangue, come stent e cateteri.

  • Test di angiogenesi = Valuta la capacità di un biomateriale di promuovere la formazione di nuovi vasi sanguigni, essenziale per la rigenerazione dei tessuti.

  • Test di genotossicità = I test di genotossicità sono esperimenti progettati per valutare se una sostanza chimica, un composto o un materiale può danneggiare il materiale genetico (DNA) delle cellule.

Questi test sono fondamentali per la valutazione della sicurezza dei prodotti chimici, dei farmaci e dei materiali utilizzati in medicina e ingegneria tissutale. La genotossicità può portare a mutazioni, tumori e altre malattie, quindi la sua valutazione è cruciale per garantire la sicurezza dei materiali in uso.


Puoi seguire anche il mio canale YouTube https://www.youtube.com/channel/UCoOgys_fRjBrHmx2psNALow/ con tanti video interessanti


I consigli che offriamo sono di natura generale. Non sono consigli legali o professionali. Quello che può funzionare per una persona potrebbe non essere adatto a un’altra, e dipende da molte variabili.
Per supportare e far crescere il canale in modo semplice, rapido e gratuito, potete fare acquisti su amazon usando il mio link di affiliazione.
Questo implica che io prenda una commissione ogni volta che qualcuno faccia un qualsiasi acquisto utilizzando il mio link di affiliazione https://amzn.to/4cgJ3Ls

Commenti